E’ la scuola l’ultimo avamposto dove si parla di poesia. Ma in che modo? E con quali risultati? Parole e passioni che mossero scrittori e poeti interessano ancora gli studenti?
A parte i circoli letterari, accademie, istituti di filologia, la scuola è rimasta l’ultimo posto in cui si parla di poesia, e non lo si fa a titolo professionale, editoriale, onorifico. L’aula scolastica con l’insegnante in cattedra e gli alunni al banco, più o meno attenti, rappresenta il luogo dentro il quale finisce la poesia di un autore che diventi, appunto, un classico. Ma che cosa diciamo quando parliamo di poesia?
A scuola la comunicazione avviene a malapena e miracolosamente, tra un adulto che pronuncia alcune parole in forma di “verso” e dei giovani che accettano di ascoltarle: ed è una relazione che non ha eguali in tutto l’universo mondo. Dove mai si può trovare un altro rapporto a tal punto fondato sul potere liberatorio della parola? Probabilmente, durante l’ora di storia e filosofia… Il primo interesse di un genitore nei confronti del figlio studente non può non essere questo interrogativo: che cosa ti dice il prof?
Di questi tempi la scuola va verso la “riforma”, cioè verso un aggiornamento strutturale mirato a potenziare l’informatica e la lingua inglese per le ragioni che sono evidenti a tutti. Non altrettanto evidente è il ruolo che riveste l’ora di italiano, anche se insegnata male e male appresa: è questa infatti l’ora nella quale “i conti non tornano” né debbono necessariamente tornare; è questa la disciplina il cui scritto, il tema, se corretto da insegnanti differenti, può meritare un voto che oscilla dal 4 all’8½ (come risulta da una ricerca di pedagogia e didattica). È questa l’occasione privilegiata poiché è quodammodo omnia: in un certo qual modo, può essere tutto.
Foscolo, Leopardi e Manzoni
Tante volte, però, la lezione di italiano si riduce a essere niente, quando il professore non crede più a una tradizione possibile della cultura e si riduce a insegnare “la consapevolezza linguistica”: meglio un formatore ad un corso di comunicazione per il servizio clienti di una grande azienda.
All’estremo opposto, se il corso di italiano tende a zero significa che l’insegnante carica i “contenuti” letterari in modo improprio, incapricciandosi di cronologie, lessicografie, filologie, retoriche e intertestualismi: meglio un artista vero e proprio, che mostri come in una bottega artigiana la maniera in cui un testo letterario nasce e cresce.
Il docente di italiano corrisponde alla grandezza del suo incarico se si riconosce portatore di una tradizione possibile di cultura, cosa che avviene attraverso il linguaggio: è “tradizione” perché giunge dal passato (anche remoto) e chiede con forza di entrare nel futuro; è “possibile” perché si scontra con la libera libertà delle persone, tanto che può essere respinta e rifiutata da intere generazioni di studenti e insegnanti; è “di cultura” perché è gesto che presuppone la pazienza del coltivatore, la semina, l’irrigazione, la pota, e ha la pazienza di attendere una crescita.
Nei decenni scorsi c’era un’energia che insufflava nella maggior parte dei cuori del personale docente della scuola: era la passione ideologica marxista, il desiderio della rivoluzione. Ma da un quindicennio buono, nessun vento, nessun sogno pare scuotere l’eloquenza didattica o scombussolare le programmazioni disciplinari: ecco il trionfo del già sentito.
A complicare le cose, anche la “nuova sensibilità” delle generazioni affacciate sul terzo millennio: per il diciottenne medio del giorno d’oggi, che viene a conoscenza della vita e dell’opera dei tre grandi poeti della letteratura italiana del primo Ottocento, le parole e le passioni che mossero quegli illustri scrittori sono lontanissime, da contemplarsi come un’anticaglia arrugginita dentro la bacheca di un museo. Eppure, barlume gratuito di un dono misterioso, ogni tanto qualcosa luccica e li colpisce, da sotto la polvere dei secoli.
Il sonetto foscoliano “A Zacinto”, per esempio, con quel suo inizio così sconsolato e sincero, che cattura l’animo:
“Né più mai toccherò le tue sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque / Zacinto mia, che te specchi nell’onde”.
E quando la voce del docente spiega dell’endecasillabo e dell’ipèrbato, c’è il rischio che la poesia svanisca. Ma risorge inattesa nell’idillio leopardiano de “La sera del dì di festa”, mentre il poeta apre a tutti la veduta dell’infinita dolcezza:
“Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna. O donna mia, / già tace ogni sentiero…” eccetera, verso la molle malinconia lirica del canto del recanatese.
Il tesoro degli umili
Di che cosa parliamo dunque quando parliamo di poesia? Si compie nell’aula scolastica il piccolo miracolo della natura dell’uomo: Homo sum, nihil humani a me alienum puto diceva Terenzio; sono un uomo, e niente che sia umano lo reputo a me estraneo. Difatti, l’idea del Manzoni di scrivere un romanzo per ricordare quella “moltitudine di uomini che passa sulla terra… inosservata” è un’idea che continua a emozionarci, perché ci richiama a noi stessi, e in quell’interiorità può accadere l’incontro decisivo, soprattutto per un adolescente.
Non è indispensabile che il professore appaia brillante o preparato, sia pure mediocre: è necessario però che sia umano. Non accumulerà tesori col suo stipendio, neanche dopo la riforma, ed è bene così, poiché il suo non è semplicemente “un mestiere”. Grazie a lui, o suo malgrado, si compie il passo culturale verso la formazione di uomini e donne, cioè la verifica di quanto imparato o ignorato in famiglia.
Il posto della poesia
Quando scende la sera, di solito i ragazzi si arrabattano a scopiazzare qua e là brandelli di compiti, tentano strenue memorizzazioni di pagine di un libro che spontaneamente non avrebbero mai aperto.
Ma al tempo dei Romani, la sera prima della battaglia era il momento fortissimo ed entusiasmante del desiderium: i legionari dell’esercito si radunavano al centro dell’accampamento e sotto le stelle esprimevano il proprio “desiderio”, chiedevano “alle stelle” (de-sidera, in latino) di poter rivedere i propri compagni l’indomani, dopo la battaglia, o almeno di poterne ritrovare le spoglie sul campo, per piangerle e onorarle mediante la sepoltura. Era quello il posto della poesia? E oggi dov’è il posto della poesia? È l’aula, questa sorta di accampamento meno marziale e meno cruento di quello romano?
La scuola si propone, discreta e modesta, come uno spazio (spesso autentico) di incontro con la verità, in una società che rilutta a guardare in faccia il proprio personale destino.
«I vari aspetti del prisma della pace sono stati ormai abbondantemente illustrati. Ora non rimane che operare, affinché l’ideale della pacifica convivenza, con le sue precise esigenze, entri nella coscienza degli individui e dei popoli. Noi cristiani, l’impegno di educare noi stessi e gli altri alla pace lo sentiamo come appartenente al genio stesso della nostra religione. Per il cristiano, infatti, proclamare la pace è annunziare Cristo che è “la nostra pace” (Ef 2,14), è annunziare il suo Vangelo, che è “Vangelo della pace” (Ef 6,15), è chiamare tutti alla beatitudine di essere “artefici di pace” (cfr Mt 5,9)».
(Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2004)
IL TIMONE – N. 30 – ANNO VI – Febbraio 2004 – pag. 50 – 51