È proprio vero che il 17 porta sfortuna. Per esempio, non pochi anni con questo numero in finale. non è che siano stati granché fausti per il cattolicesimo. Sempre per esempio, era il 1517 quando Lutero appese la sue famose “tesi” sulla porta della chiesa di Wittemberg. Nel 1717 (17 doppio) nacque la Massoneria moderna, cinquecento e passa volte condannata dalla Chiesa (sì, oggi ha completamente perso quel virulento anticlericalismo che la caratterizzò nell’Ottocento, ma il suo relativismo rimane e ancora osta a un’entente cordiale). La Rivoluzione bolscevica è del 1917. Qualche maligno potrebbe aggiungere il 17 marzo 1861, giorno della nascita ufficiale del Regno d’Italia (non a caso mai festeggiato, nemmeno dopo la Conciliazione).
Ma oggi voglio portare la vostra attenzione su un altro 17 marzo, molto più recente, anno 2002. Domenica, giorno del Signore. Nella lontana Colombia, Isaias Duarte Cancino, arcivescovo di Calì, è stato assassinato a colpi di pistola da due sicari. Tutta l’attenzione della stampa mondiale si è appuntata sui trafficanti di droga del “cartello” che proprio da quella città prende il nome. E, in effetti, l’ammazzato non aveva mai nascosto il suo impegno di pastore contro quella piaga, praticamente l’unica cosa che tenesse il suo Paese sotto i riflettori planetari: triste primato. Un po’ meno si è parlato della lotta senza quartiere che il Cancino conduceva senza giri di parole contro il Fare, Fronte Armato Rivoluzionario Colombiano. Guerriglia veteromarxista, insomma, solita roba sudamericana. Nel nostro immaginario televisivo tutto ciò. prende la forma di bandiere rosse che sventolano la faccia in nero del “Che”, subcomandanti e delegazioni antiglobali a riverirli, anche italiane ma soprattutto francesi. Ma, quel che per noi è folklore, per quei popoli è tragedia quotidiana, una tragedia che monsignor Cancino non ha mai perso occasione di segnalare e stigmatizzare.
D’altra parte, il pastore sta lì proprio per guidare il gregge ad acque tranquille e pascoli erbosi, nonché per difenderlo dai lupi. La sua pazienza traboccò nell’agosto 2000, quando non esitò a esporsi pubblicamente sul maggior quotidiano locale, in prima pagina. Ricordò l’attacco del Fare alla cittadina di Arboleda, dove i guerriglieri fecero scempio della popolazione inerme e, dopo diciotto ore di massacro, si misero a giocare con le teste recise dei poliziotti e dei pochi soldati di guarnigione. Ma l’arcivescovo ce l’aveva soprattutto col governo, colpevole di non fare il suo dovere di difendere il popolo ma di praticamente limitarsi a negoziare con indulgenza fuori luogo con quelli che per il presule erano solo criminali e basta: “Ia guerriglia ha l’insolenza di affermare che essa rappresenta il popolo della Colombia sui tavoli di negoziato”, scriveva. Invece si tratta di “vandali” che “solo perché portano tre o quattro fasce al braccio, pensano sia loro permesso di seminare panico e terrore nella nostra terra”. Il Cancino chiedeva, e con forza, al governo di fare il suo lavoro, così come lui faceva il suo: “faccia osservare la Costituzione”. Cioè, faccia giustizia, senza la quale non si dà pace.
Temerario? No, sapeva bene che solo una settimana prima uno dei suoi sacerdoti era stato sequestrato e che con quell’uscita sarebbe finito nel mirino. Infatti, l’hanno ucciso. Si badi: non l’avrebbero fatto se non l’avessero giudicato veramente pericoloso. Ora, questo martire ben si aggiunge alla schiera di quei pastori che diedero la vita per il loro gregge e prende posto accanto alle grandi figure di ecclesiastici che hanno creato la nostra civiltà, quelli che hanno fermato Attila e convertito Clodoveo, scomunicato Federico Il e cacciato di chiesa Teodosio.
Mi si potrà dire che un asino vivo è meglio di un dottore morto. Bisognerà vedere, comunque, cosa me ne faccio di un asino. Va detto che, a ben scrutare la storia cristiana, si nota un’assoluta imprudenza da parte di Dio, il quale lasciò sterminare tranquillamente suo Figlio, i suoi Apostoli, quasi tutti i suoi discepoli e parecchie migliaia di semplici fedeli nelle grandi persecuzioni romane. Ora, poiché in capo a due secoli il mondo era ufficialmente cristiano, c’è da dedurre che, nella prospettiva di fede, i dottori morti sono molto meglio degli asini vivi. E che al Dio dei cristiani importa solo che uno faccia il proprio dovere di testimone se testimone, di pastore se pastore. Certo, con discernimento e intelligenza. Ma dov’è che finisce la prudenza umana e comincia la Prudenza-virtù? Bella domanda, da girare a s. Massimiliano Kolbe. Il quale non ha certo risolto il problema dei lager facendosi ammazzare al posto di un poveraccio: alla fine, il conto dei morti è rimasto uguale.
Forse (ma è una mia ipotesi) la missione di Duarte Cancino era quella di fare il testimonial (“martire”, in greco) per tutti gli altri pastori, affinché, nella Valle di Giosafat, possano anche loro dire, come s. Paolo (in procinto di rimetterci la testa), “sono giunto alla fine del mio cammino, ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede”.
Sennò saranno costretti ad ammettere: “ho fatto lo slalom tra i rischi, ho conservato la pelle, la poltrona e le terga al caldo”.
Per evitare ciò, seguiamo il consiglio evangelico e preghiamo il Padrone della messe che ci mandi pastori come monsignor Duarte Cancino. Tanti, per piacere.
TIMONE N. 20 – ANNO IV – Luglio/Agosto 2002 – pag. 52 – 53
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