Il vero processo a Gesù si celebrò davanti al Sinedrio.
A Roma spettava solo di ratificare la sentenza giudaica e di eseguire la condanna a morte. Ma Pilato fece di tutto per salvare Gesù. Lo fermò soltanto il suo relativismo scettico.
Non fu un vero processo
Il primo dato sconvolgente è che quello davanti a Pilato non fu un vero e proprio processo. Non nel senso che noi attribuiamo a questa parola, cioè un procedimento di accertamento dei fatti, che si conclude con una decisione dell’autorità giudiziaria. Gesù, infatti, viene processato una sola volta, davanti agli uomini del Sinedrio. In questa sede viene interrogato, percosso, insultato e, alla fine, condannato per essersi fatto Dio, attraverso il gesto plateale di Caifa che si straccia le vesti. Gesù non è trattato come un pazzo, ma è preso tremendamente sul serio dalle autorità religiose di Gerusalemme che, a maggioranza e non all’unanimità, decidono che merita la morte come bestemmiatore che vuole, fra l’altro, distruggere il Tempio di Gerusalemme. C’è però un problema: i giudei non possono mettere a morte nessuno. Davanti al Gran Sinedrio di Gerusalemme si svolgono cause civili, penali e religiose, le cui sentenze hanno immediata efficacia esecutiva, mediante l’intervento delle forze di polizia di cui dispone quel tribunale. Sono infatti le guardie del Sinedrio ad eseguire il “mandato di arresto” di Gesù. Ma una cosa il Sinedrio non può fare: dare la morte ai colpevoli perché non detiene lo ius gladii, letteralmente il “diritto della spada”. Ha bisogno che l’autorità romana esegua la sentenza capitale. E, per farlo, occorre quella che tecnicamente si definisce una delibazione (exequatur) della sentenza già avvenuta. In pratica, una presa d’atto formale dell’avvenuta condanna, che non ammette un nuovo giudizio di merito, cioè un nuovo accertamento dei fatti. Pilato si discosta da questa linea di condotta, e invece si interessa della vicenda, interroga l’imputato, dichiara di non trovare in lui alcuna colpa, tenta in tutti i modi di scagionarlo. È un’anomalia procedurale che rivela un lato sconosciuto della personalità del Procuratore: egli forzò perfino la legge romana pur di riuscire a evitare una palese ingiustizia.
Ma non seppe – o non poté – spingersi fino in fondo. Vediamo perché.
La leggenda nera contro l’impero romano
Il procuratore romano della Giudea non poteva esercitare un controllo di merito sulle decisioni del Sinedrio. Egli non aveva un diritto di veto, ma soltanto il potere di controllare che la decisione fosse di competenza del giudice, e che il processo si fosse svolto correttamente. Questa situazione conferma che Roma aveva trattato la Giudea non tanto come una terra conquistata, ma come una sorta di protettorato coloniale, garantendo il rispetto del culto e riconoscendo il potere giurisdizionale del Sinedrio, ad eccezione dello Ius gladii. È una verità difficile da metabolizzare, dopo che per decenni la letteratura, ma soprattutto il cinema e la televisione, hanno presentato i romani sotto una luce sinistra, quasi si trattasse di nazisti antelitteram impegnati nelle prove generali dell’Olocausto. In realtà, se paragonati alle mentalità e alle prassi militari e politiche del tempo, i romani avevano dimostrato di interpretare una originalissima idea di impero, che implicava importanti elementi di tolleranza e di rispetto delle civiltà locali. Avevano, sopra ogni altra cosa, inventato il diritto, con la sua grandiosa architettura e la sua idea di legalità applicata al processo, di cui avremo riprova, ad esempio, nella tormentata vicenda giudiziaria di Paolo di Tarso. Rientra in questa rilettura ideologica anche la confusione che negli anni Settanta è stata alimentata intorno al capo d’accusa rivolto a Gesù. In un clima
fortemente impregnato di idee marxiste rimasticate in ambienti cattolici, Gesù è stato trasformato in un rivoluzionario anti romano, un destabilizzatore dell’ordine costituito, un Che Guevara in salsa giudaica. Per avvalorare questa rilettura orizzontale del mistero dell’Incarnazione, era necessario calcare la mano sul ruolo tirannico dell’autorità, secondo il classico schema rivoluzionario.
Ma Gesù non è mai stato un rivoltoso, come Pilato aveva ben compreso. Lì finiva l’interesse dell’impero per quell’uomo, e lì si sarebbe concluso il processo romano, magari con qualche frustata esemplare, se non ci fosse stato dell’altro. E cioè una condanna a morte dell’autorità giudaica perché quell’uomo aveva bestemmiato, proclamandosi Figlio di Dio.
Verità storica e antisemitismo
Perché tanto accanimento nei confronti del mondo romano? C’è una ragione precisa: si vuole in questo modo rimuovere la responsabilità di quegli uomini del Sinedrio che intentarono il vero processo contro Gesù, completo di imputazione, trattazione, autodifesa, organo collegiale riunito, verdetto. Alcuni temono che il ricordo di questa verità storica possa alimentare forme di antisemitismo.
E così ecco scomparire dalle scene di un film, o dall’esegesi dei testi sacri, i passaggi considerati più imbarazzanti, quelli per intenderci in cui emerge in tutta evidenza la responsabilità personale di Caifa, di Anna, e di altre personalità giudaiche.
Dimenticandosi così di un elementare principio giuridico e morale: e cioè che nessuno è personalmente responsabile delle colpe dei governanti del popolo cui appartiene, tanto meno dei governanti di duemila anni fa. «Personalmente – scriveva il giurista cattolico Pietro Pajardi – mi sento a pieno titolo erede storico, etnico e culturale di coloro che hanno messo a morte S. Pietro e S. Paolo, e non ne faccio un dramma personale. Contesto però che si voglia addirittura tentare di cancellare le presunte colpe dei padri, presentando un clima storico del processo contrario alla realtà e confinando i responsabili sinedriti ad una piccola combriccola
oligarchica di diabolici forsennati del tutto avulsi dal popolo giudeo. Questo non è vero né storicamente, né eticamente, né politicamente ». L’indignazione di Pajardi è ben fondata, se si pensa che i testi evangelici di Marco e di Giovanni – ritenuti “antiebraici” – hanno subìto negli scorsi decenni un attacco distruttivo da parte di esegeti impegnati a decretarne l’infondatezza storica per colpa di una presunta animosità antiebraica delle prime comunità cristiane. Anche l’espressione “Patì sotto Ponzio Pilato” viene spesso equivocata nel suo vero significato, poiché essa si riferisce, più che a un giudizio di responsabilità, alla delimitazione – tipicamente romana – dell’epoca in cui i fatti si sono svolti.
Ponzio Pilato e il paradosso di Hans Kelsen
Riassumendo: la posizione di Ponzio Pilato nella vicenda che ha portato alla condanna di Gesù appare assai alleggerita rispetto a una certa vulgata oggi corrente. Egli non avrebbe potuto rimandare libero il Messia senza con ciò violare l’ordine costituito. Sbagliò – perché avrebbe dovuto in coscienza scardinare l’iniqua sentenza ebraica – ma è giusto ricordare che per farlo avrebbe dovuto compiere un abuso di potere. In un certo senso lo fece, assolvendo “con formula piena” l’imputato per non aver commesso il fatto, respingendo per ben tre volte la folla urlante che grida il suo osceno “crucifige!” e decretando: «Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò» (Luca 23,22). Solo alla fine cede, abbandonando l’Innocente «alla loro volontà» (Luca 23,25), che dunque non era la sua. Ma il Procuratore della Giudea una colpa l’ha commessa. Ed è quella di non aver compreso quale fosse il fondamento della sua autorità. Pilato è una vittima del formalismo giuridico, cioè della incapacità di far prevalere la giustizia sostanziale, la verità, sul guscio vuoto della legge degli uomini. Gesù gliene offre l’occasione quando gli ricorda: «Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto». Pilato zittisce, perché forse pensa con un tremito all’imperatore Tiberio. E i capi del Sinedrio faranno appello proprio a questa debolezza dell’uomo, ricattandolo con una minaccia tremenda: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!». Ma Gesù intendeva dire un’altra cosa: ogni potere umano è legittimo soltanto se riconosce la sua dipendenza da Dio e dalla verità. In questo senso, l’errore di Pilato rimanda direttamente alla modernità in cui siamo immersi. Non per nulla il filosofo del diritto boemo Hans Kelsen (1881-1973) trova irreprensibile la condotta del Procuratore romano, che nell’incertezza si affida al giudizio della maggioranza. «Pilato – scriveva Joseph Ratzinger nel 1993 – diventa il simbolo della democrazia relativistica e scettica, basata non su verità e valori, ma su procedure. Che nel caso di Gesù venga condannato un uomo giusto e innocente non sembra turbare Kelsen: non vi è infatti altra verità che la maggioranza». Il “referendum” tra Gesù e Barabba prefigura ogni occasione in cui il popolo viene eretto a fonte ultima della verità. Come quando un parlamento trasforma l’aborto da delitto in diritto.
Con la sentenza di morte inflitta al “Re dei Giudei” Lucio Ponzio Pilato esce di scena. Ma da quel momento la sua vita – come quella di tutta l’umanità – non sarebbe più stata la stessa.
BIBLIOGRAFIA
P. Pajardi, Il processo di Gesù, Giuffrè editore, 1994.
G. de Antonellis, Quid est veritas? Discorso su Pilato e sulla comunicazione, Lampi di Stampa, 2005.
G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Oscar Mondadori, 1989.
J. Ratzinger, Cielo e terra, Piemme, 1997.
Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, Sei, 2003.
A. Gnocchi – M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Ancora, 2001, pp. 92-96.
A. Gnocchi – M. Palmaro, Qua la mano don Camillo, Ancora, 2000, pp. 2001-2005.
Dossier: Processo a Gesù
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