È la grande dimenticata del nostro tempo. Eppure alla morte, termine della nostra vita terrena e inizio di quella ultraterrena, nessuno sfugge. Ecco perché dobbiamo meditarla.
Quando ero bambina, abitavo in un piccolo paese del Trentino. Di quei tempi ricordo con vivezza un particolare: ogni volta che qualcuno stava per morire, le campane della chiesa cominciavano a suonare “l’agonia” e continuavano con i loro rintocchi lenti accompagnando il morente fino alla fine. Tutti venivano così informati di quel che stava avvenendo. Le donne uscivano sull’uscio, scambiavano qualche commento di circostanza, qualche breve preghiera. Poi, quando tutto si era compiuto, c’era chi si recava a dare una mano ai parenti per lavare e vestire la salma e chi invece portava le proprie piante verdi per contribuire ad allestire la camera ardente. Quando tutto era pronto, noi bambini potevamo partecipare liberamente ai riti del lutto: andavamo, curiosi, a visitare il morto. Ricordo che nessuno ci impediva nulla, a meno che non disturbassimo. Mi pare, se ci ripenso, che tutto fosse vissuto con semplicità e naturalezza. Ho l’impressione che allora la morte fosse più integrata alla vita di adesso: gli ospedali erano pochi e lontani e praticamente tutti morivano nel loro paese e nella loro casa, mentre una diffusa religiosità, che faceva parte della cultura stessa, aiutava ad accettare l’evento.
Ora sappiamo che non è più così: la morte ospedalizzata, come si usa dire, è diventata più lontana e nascosta, mentre la caduta della fede l’ha resa un fatto sempre più incomprensibile, spesso inaccettabile. I progressi della scienza fanno sognare una sorta di immortalità che nasce non da una prospettiva religiosa ma solo da una industriosa ricerca umana. Per questo, forse ancor più che in passato, appare urgente riparlare di questa tappa della nostra vita per cercare di reintrodurla nella nostra prospettiva e di riconciliarci con essa.
A pensarci bene, a noi credenti, questo passaggio che introduce alla vita eterna non dovrebbe incutere timore. In fondo è il realizzarsi del nostro destino, dello scopo per il quale siano venuti alla vita. Ma non è così. Il peccato originale, lo abbiamo ricordato più volte in queste nostre pagine, tende ad annebbiare la nostra vista e a rinchiudere il nostro pensiero e la nostra sensibilità nello stretto orizzonte terreno. Noi non abbiamo più, come invece i nostri progenitori, esperienza diretta di Dio. Certo, potremo avvertire a tratti in modo particolare la Sua presenza. Ma, normalmente, la nostra è una condizione in cui raggiungiamo Dio con la fede e con la speranza non con la visione di Lui. Ciò che invece al momento avvertiamo costituire il nostro essere è questo nostro corpo animato da un’energia che lo mantiene vivo, questo cuore che prova desideri e sentimenti, questa mente che formula pensieri e idee. Per noi che vediamo tutto nella natura nascere e morire la prospettiva della vita eterna non è facile da ammettere anche se certamente appartiene ai nostri desideri più profondi. Per questo facciamo di tutto per lasciarci prendere dalla vita e ignorare la morte almeno fino a quando possiamo, cioè fino a quando non la sentiamo avvicinarsi a larghi passi a noi stessi o a qualcuno dei nostri cari. Tutto questo è umano, è molto umano. È una reazione spontanea, naturale. Non dimentichiamo che Gesù stesso l’ha provata cercando, anche se solo per un istante, di allontanare la sua propria morte.
È difficile, dunque, che senza una precisa volontà noi affrontiamo il problema. Per questo è necessario che, prima o poi nel corso della nostra esistenza, andiamo a stanare nel profondo questa paura, proprio là dove si nasconde, per farla uscire allo scoperto, guardarla bene in faccia, osservarla nei suoi vari aspetti fino a riconciliarci con essa. È una sorta di rieducazione dello spirito quella che dobbiamo fare. Io ricordo bene quando dovetti affrontarla sul serio per la prima volta. Fu durante un corso di esercizi spirituali, non molti anni fa. Mi colpirono come una freccia le parole del predicatore: ci disse che, quando avevamo dei seri problemi da affrontare e risolvere nella nostra vita, prima ancora di concentrarci su di essi, avremmo dovuto pensare alla morte. Mi parve strano, ma poi capii: pensare alla morte, cioè prendere in considerazione il nostro destino nella sua interezza, ci avrebbe consentito di guardare le cose nella loro giusta prospettiva e, dunque, di poter davvero trovare le soluzioni migliori ai nostri problemi. La vita, da sola, non è in grado di illuminare la vita, rischia di essere un serpente che si morde la coda perché non esce da una prospettiva che è soltanto umana. È la morte, cioè il punto di rottura, che in realtà è capace di illuminare tutto il nostro destino, quello che è stato prima e quello che seguirà. È la morte che, illuminata dalla fede, permette all’uomo di capire davvero che la sua vera posizione è quella della Croce, cioè amante della vita e aperto al mondo, ma insieme conscio del suo rapporto con il Cielo, capace, dunque di questa doppia relazione che lo dilata nella dimensione orizzontale e in quella verticale. Gli occhi umani ci mostrano una fine ingloriosa: un corpo che muore e che finirà in cenere, legami e sentimenti piombati nel nulla. Tutto all’apparenza è perduto, inutile lo sforzo fatto per costruire una vita degna.
Eppure l’umanità ha sempre intuito che quella non era la fine, quanto piuttosto un passaggio che aveva un significato sacro e che immetteva in un’altra dimensione. Gesù ci aiuta a capire meglio perché ci dimostra nei fatti, con la sua morte seguita dalla risurrezione, che c’è un mistero grande nella vita umana chiamata a un destino che la supera cosicché la morte non è una fine ma è, in realtà, l’inizio dell’esistenza vera, quella in cui finalmente vedremo faccia a faccia Colui che ci ha creato e che ci ha seguito, amandoci, per tutta la nostra vita. Così c’è nella prospettiva cristiana questo duplice aspetto: l’incarnazione del Verbo di Dio ci “obbliga” a prendere profondamente sul serio la nostra vita terrena come il luogo in cui universo e uomo progressivamente si divinizzano. Ma al contempo, quell’Uomo-Dio spinge in continuazione il nostro sguardo verso l’alto mostrandoci la vera meta affinché lungo la via non diventiamo schiavi degli idoli del mondo. La morte sta lì, a metà strada, termine della nostra vita terrena, inizio di quella ultraterrena, evento capace di richiamarci, con il timore che ci incute ma anche con la speranza di cui è portatrice, alla realtà, alla vera realtà cristiana.
IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 58-59