15.12.2024

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Pio X e Giovanni XXIII stessa fede
31 Gennaio 2014

Pio X e Giovanni XXIII stessa fede

 



Ogni Pontefice porta ai vertici della Chiesa la sua cultura e le sue diverse opinioni. Tuttavia il Magistero esprime la continuità, nonostante le diversità. Perché i cattolici imparino ad amare tutta la loro storia.

Esiste un luogo comune, accanto a molti altri, che contrappone due Pontefici fra loro, il beato Giovanni XXIII (1958-1963) e san Pio X (1903-1914). Il primo sarebbe stato il campione del progressismo, maturato all’interno della Chiesa a ridosso del Concilio Vaticano II (1962-1965), in pratica l’artefice del tentativo di stringere un compromesso fra la Chiesa e il mondo moderno, adattando la dottrina cattolica alle ideologie moderne.
San Pio X invece è stato un “Papa buono” come lo sarà il successore, così recita il luogo comune, ma veniva “dalla campagna”, era un semplice parroco incapace di cogliere fino in fondo i “segni dei tempi”, e soprattutto era succube di una curia reazionaria alla quale lasciò mano libera soprattutto per quanto riguarda la repressione dell’eresia modernista.
Secondo l’ottica dell’«ermeneutica della discontinuità e della rottura», condannata da papa Benedetto XVI nel discorso del 22 dicembre 2005 perché divide e contrappone fasi diverse della storia della Chiesa, uno soltanto dei due Pontefici merita di essere ricordato e celebrato, mentre l’altro va in qualche modo “silenziato”, come se non ci fosse stato.
Così, nel tempo del post-Concilio, soprattutto nell’ultimo decennio del pontificato di Paolo VI (1963-1978), nella stessa Università Cattolica capitò a me direttamente di osservare durante una tesi di laurea una smorfia di contrarietà sul volto di un professore quando venne ricordata la canonizzazione di san Pio X. Feroce era in quell’epoca la polemica contro il Papa della Pascendi, l’enciclica che aveva condannato il modernismo: era una polemica che proveniva soprattutto da ambienti cattolici, da docenti nei seminari e giornalisti, da storici e studiosi delle diverse discipline. Al contrario, il beato Giovanni XXIII era il campione della “nuova” Chiesa nata dal Concilio, colui che aveva inaugurato una nuova Pentecoste che purtroppo verrà bloccata nel suo sviluppo dal suo successore Paolo VI.
Ma vi è anche chi, soprattutto oggi, utilizza una ermeneutica della rottura contraria, ribaltando i ruoli ed esaltando Pio X per denigrare Giovanni XXIII.

La continuità nel Magistero
Lo spirito cattolico trasmesso dal Magistero della Chiesa insegna diversamente. Sempre nel discorso del 2005, Benedetto XVI contrapponeva all’ermeneutica della rottura un’interpretazione del Concilio fondata sulla riforma, sul «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». Quindi diversi sono i cambiamenti che la Chiesa è costretta a fare affinché il suo messaggio possa penetrare più facilmente nel corpo sociale (la riforma), ma identico, anche se dovrebbe essere sempre più approfondito, compreso ed amato, rimane il messaggio di salvezza. Cristo, che è il cuore della fede cattolica, è lo stesso ieri, oggi e sempre, ma il suo insegnamento tramite la Chiesa deve tener conto dei grandi cambiamenti culturali nelle diverse epoche storiche. Così la Chiesa fece nelle grandi epoche di passaggio della sua storia, per esempio quando, dopo i primi tre secoli segnati dalla clandestinità e da periodi di persecuzione, sorse progressivamente l’«era costantiniana» (dal nome dell’imperatore che concesse la libertà di apostolato alla Chiesa con l’editto di Milano del 313), durante la quale il cristianesimo diventò la religione ufficiale e maggioritaria dell’Impero romano. Ma quando questa epoca, il cosiddetto medioevo, terminò e la Chiesa venne sfidata dall’eresia protestante, la Chiesa riunita in un Concilio a Trento (1545-1563) delineò nuove risposte educative e dottrinali, oltre che pastorali, alla situazione venutasi a creare. Lo stesso avverrà con il Vaticano II, convocato improvvisamente da Giovanni XXIII nel 1959 e inaugurato dallo stesso Papa tre anni dopo. Il processo di scristianizzazione cominciato con l’Illuminismo nel XVIII secolo, e i due secoli successivi dominati dai tentativi delle ideologie di ridurre il cristianesimo a un fatto esclusivamente privato, erano profondamente penetrati nel corpo sociale del mondo occidentale, allontanando tante persone dalla vita religiosa. A queste persone la Chiesa decise di rivolgersi, cercando di trasformare la Chiesa di una società cristiana ormai inesistente in una Chiesa che privilegiasse gli aspetti missionari anche nel mondo occidentale, già cristiano da molti secoli. Rileggendo il discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962 di Giovanni XXIII al Concilio si percepisce questa intenzione in modo abbastanza evidente. Quello che verrà percepito come un evento rivoluzionario, in seguito all’influsso dei media e ai tentativi interni di uomini di Chiesa di trasformare un mutamento di indirizzo pastorale in una rivoluzione dottrinale, in realtà era un adeguamento del modo di porgere il Vangelo nel mondo contemporaneo, a una umanità che viveva in una cultura profondamente mutata.

Giovanni XXIII celebra Pio X
Ma sarebbe sbagliato ritenere che questo nuovo atteggiamento comporti una rottura nel Magistero. Nello stesso anno in cui indiceva il Concilio, Giovanni XXIII rivolgeva all’episcopato e al clero delle Venezie un’esortazione apostolica, a 45 anni dalla morte di Papa Sarto, in occasione del ritorno a Venezia, per pochi giorni, delle sue spoglie mortali.
In questa occasione il Papa pronunciava parole impegnative sul suo predecessore: «A chi, definendolo “un povero parroco delle campagne venete”, lo immaginò quasi confuso e sperduto nella immensità dei compiti pontificali, egli diede la misura altissima della sua chiaroveggenza di Maestro e di Pastore universale, soprattutto per alcuni atti, tra i più segnalati del suo governo: la creazione dell’Istituto Biblico, la preparazione del Codice di Diritto Canonico, la riorganizzazione delle Congregazioni Romane, l’invito alla Comunione frequente degli adulti ed alla Comunione ai fanciulli in tenera età, per la custodia dell’innocenza e dei buoni costumi: il ripudio di avvedutezze meramente politiche come mezzo di difesa del ceto ecclesiastico e degli inalienabili diritti della verità rivelata e della libertà delle anime».
Si tratta di un documento che vuole celebrare la figura del predecessore, attraverso il contributo del suo insegnamento nei confronti della figura del sacerdote, della Chiesa e infine esaltando i motivi per cui il popolo continua a celebrarne le virtù e a riconoscerne la santità. Certamente alcuni avrebbero preferito un ricordo che mettesse in luce altri aspetti, per esempio la lotta contro il modernismo, che pur furono altrettanto importanti nel suo pontificato, ma è pur vero che ogni Papa ha una sua sensibilità e cerca nei suoi predecessori gli insegnamenti che gli sembrano più adatti per la sua epoca. E comunque Giovanni XXIII ricorda che «la Chiesa ai tempi di Pio X stette al suo posto con finezza e fierezza. Taluni forzarono la porta, purtroppo: altri riuscirono ad imprese clamorose e dolorose. Ma su quel clamore si distesero poi le ombre della notte». Così, il Papa indicato da alcuni studiosi come l’artefice di una svolta rivoluzionaria si rivolge al suo predecessore considerato, al contrario, come l’artefice di una dura opposizione e repressione del “nuovo”, e invita a pregare per lui, «Patriarca e Pontefice nostro g l o r i o s o , impavido e benigno».
Dovremmo imparare ad applicare un’ermeneutica della continuità vera, che sappia cercare e mettere in luce la continuità della Chiesa, invece di cercare divisioni infondate. I Papi sono spesso diversi fra loro per formazione culturale, per le varie sensibilità, per avere diverse scuole teologiche di riferimento, ma ciò che li accomuna nell’essenziale è molto di più di queste diversità, peraltro legittime e a volte provvidenziali.

BIBLIOGRAFIA

L’esortazione apostolica A quarantacinque anni del beato Giovanni XXIII, rivolta all’episcopato e al clero delle Venezie, raccolti intorno alle spoglie di S. Pio X, è del 21 aprile 1959 e si trova sul sito della Santa Sede www.vatican.va.

 

DA NON PERDERE

 

Giorgio Maria Carbone, Ma la più grande di tutte è la carità, ESD, Bologna 2010, pp. 416, € 20,00
La carità non è elemosina, né altruismo, né umana simpatia che si nutre per alcune persone. Per sapere davvero cos’è la carità occorre tornare alle fonti: alla rivelazione biblica. Scopriamo così che essa è anzitutto l’identità stessa di Dio: Dio è amore (1 Gv 4,8). Essa è poi l’amore con cui Dio ci ama e che rende noi capaci di amare lui e il prossimo: Poiché io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri (Gv 15,12). Donando a noi la carità, Dio ci fa partecipi della sua stessa potenza di amore, elevando la nostra volontà e rendendoci capaci di amare realmente nel modo in cui lui ama. Vivere questa virtù teologale, con le sue manifestazioni di gioia, benevolenza, elemosina, servizio e apostolato, sembra quindi l’unico modo ragionevole di corrispondere a quell’amore così grande che abbiamo ricevuto. Gli aspetti più originali di questo ottimo testo di Giorgio Carbone sono: il costante richiamo alla Sacra Scrittura e alla Tradizione; il tentativo di fondare la teologia morale sulla teologia dogmatica e la virtù della carità sulla teologia trinitaria e delle missioni divine; la distinzione tra la carità e le altre forme di amore; il punto sui peccati contro la carità.

 

IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 54 – 55

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