Un vescovo di una giovane diocesi della Papua Nuova Guinea parla del seminario. E ricorda cose scomode e dimenticate. Diventare sacerdote è una scelta che comporta anche disciplina, sacrificio, celibato. E i frutti si vedono…
Incontro a Milano mons. Cesare Bonivento di Chioggia, dal 1992 vescovo del Pime di Vanimo in Papua Nuova Guinea (PNG). Mi parla della sua giovane diocesi, con 38.000 cattolici su 120.000 abitanti, in un territorio di 30.000 km2, quasi senza strade e con alte montagne. La PNG ha 2 milioni di cattolici su 6 di abitanti.
L’amico Cesare dice: «I Passionisti australiani hanno fondato la diocesi a partire dal 1960. In un ambiente difficile e ostile hanno fatto miracoli ». Nel 1992 Vanimo aveva una dozzina di sacerdoti, tutti stranieri. Ha iniziato il seminario minore con la scuola media interna (High School), poi il maggiore: «È il secondo anno consecutivo che il governo dichiara la scuola del nostro seminario la miglior scuola media della PNG, per i contenuti educativi e la disciplina. Ci siamo impegnati molto con gli insegnanti, i testi scolastici, ecc. e questi sono i primi frutti. Noi siamo stranieri, la mancanza di sacerdoti locali pesa e lo sentono. Quando vedono che il vescovo si impegna per il seminario, allora capiscono che la Chiesa non vuol fare una colonia, ma educare e lasciare a loro la guida. Ho un solo sacerdote locale su 20, ma nel 2013 incomincio ad ordinare i diaconi e poi spero, con la grazia di Dio, di avere 2-3-4 preti ogni anno, una cosa meravigliosa in PNG, dove i preti locali non aumentano».
Vanimo, una delle ultime diocesi nate in PNG, ha oggi 50 alunni nel seminario minore, 20 in quello maggiore. È l’unica diocesi che ha i propri seminari. Il governo ha costruito molte scuole medie e licei, si sono chiusi i seminari minori mandando i seminaristi alle scuole pubbliche. Scelta sbagliata perché i due seminari maggiori, a Port Moresby e a Rabaul, ricevono poche vocazioni dalle scuole statali.
L’amico mons. Cesare fin dall’inizio ha detto: «Questo è un seminario, non una High Schoolqualsiasi. Chi ha qualche intenzione di farsi prete, venga, chi invece esclude in modo positivo di diventare sacerdote, non venga da noi. Quindi la scuola ha acquistato una sua identità come seminario. Molte famiglie volevano mandare i loro figli, ma accettavamo solo i seminaristi. Oggi è chiaro a tutti che cosa è il seminario minore. E gli alunni che dal minore salgono al maggiore sanno che debbono accettare una vita disciplinata ma anche gioiosa, obbedire, pregare, studiare, ecc. Capiscono che per diventare sacerdoti, con l’aiuto di Dio debbono fare delle rinunzie, dei sacrifici e vanno avanti solo se sono disposti a questo».
La Papua Nuova Guinea è indipendente dal 1975, ma l’Australia esercita ancora un forte influsso culturale, anche nella Chiesa. Si è affermata l’ideologia “My Culture”: sono orgoglioso della mia cultura e non ammetto altro modo di vita. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto l’importanza delle culture, nelle quali la Chiesa deve “inculturarsi”, ma nei seminari si è lasciato molto spazio con risultati discutibili: «Ad esempio – dice mons. Bonivento – ubriacarsi è comune tra la gente, per essere uno di loro devi ubriacarti, masticare la betel nut, la noce che dà un certo eccitamento e fa sputare la saliva rossa. Io mi sono impegnato a proibire queste e altre abitudini: in un contesto formativo non puoi diventar prete se non ti mortifichi. Il seminario dev’essere un luogo di formazione alle virtù cristiane. E poi, il fumare o l’ubriacarsi non fanno parte della cultura locale, sono importati. Ma fanno comodo e si etichettano come “my culture”».
La tendenza di concedere ai seminaristi una certa libertà non ha senso. Io ho iniziato i miei due seminari seguendo le indicazioni del Concilio e ancor oggi noi agiamo in consonanza con quanto dice la Chiesa. Anche il padre spirituale all’inizio non era accettato. Il seminario deve avere un padre spirituale per orientare gli alunni al sacerdozio. Dire che debbono andare dal padre spirituale ogni 15 o 20 giorni, era una cosa che non capivano. Oggi nei nostri seminari i giovani sono contenti e sentono che la loro vita sta prendendo un orientamento preciso per diventare buoni preti. Va avanti chi con sincerità vuol vivere quelle norme, quello stile di vita. Altrimenti, puoi anche avere dei preti formati in qualche modo, ma poi ti penti di averli ordinati perché non danno buon esempio.
«Ma a parte l’identità spirituale del sacerdote, l’essere prete è anche una scelta di vita e tutte le professioni hanno le loro regole da osservare. Se al pilota dell’aereo piace il vino o la birra e si ubriaca, non può diventare pilota o gli tolgono la patente. Possibile che per i preti non si possa chiedere lo stesso rigore? In seminario dobbiamo educare a questo, dare ai giovani il grande ideale dell’amore a Cristo e una precisa identità del sacerdozio e delle gioie e dei sacrifici che questa missione richiede. Penso che la grande mancanza nel mondo moderno sia l’educazione alla mortificazione, alla rinunzia. Il prete che non sa sacrificarsi non fa una buona missione. Noi tentiamo di educare a questo e i giovani ci seguono. Anche il discorso che il sacerdote dev’essere inserito nella vita del mondo è giusto, ma va inteso bene. Ci vuole inserimento e ci vuole separazione dal mondo. Il prete non è un eremita, ma non è nemmeno un giovanotto come gli altri».
Per molti anni mons. Bonivento, com’era inevitabile, è stato criticato: «Non ho avuto paura di fare brutta figura – dice – dicevo a tutti che andavo avanti perché questo è quanto dice il Concilio. Ho visitato le Chiese dell’Asia vicine alla nostra: Indonesia, Filippine, India, Birmania, Sri Lanka. Tutte queste diocesi hanno il seminario minore, come anche i religiosi. Noi siamo stati fortemente influenzati dall’Australia, che a sua volta è influenzata dalle Chiese d’Europa che si considerano progressiste. Adesso parecchi vescovi si pentono, ma fare marcia indietro non è facile. Per fare un seminario che funzioni ci vogliono almeno dieci anni, creare una tradizione, trovare il personale giusto, dare norme e farle osservare, ecc. Il seminario di Vanimo oggi è considerato da tutti e fa riflettere. Non so come ho fatto a resistere, perché erano tutti contrari alla mia linea, ma io ripetevo che era la linea del Concilio e della Chiesa. I vescovi oggi sono angosciati: al seminario teologico nazionale di Port Moresby ci sono 40 alunni per sei anni di studi e per 14 diocesi (poi il seminario maggiore di Rabaul per 4-5 diocesi). Quindi, in media, ogni diocesi non ha nemmeno un prete all’anno! Non ci sono più preti per fare i nuovi vescovi».
È difficile la formazione al celibato? «Direi di sì perché avere una discendenza è importantissimo in PNG. D’altra parte la gente non accetta un prete che non sia celibe e se avesse una doppia vita lo rifiuta. Dare il sacerdozio a uomini sposati? Penso che questa decisione sia contraria alla tradizione della Chiesa latina, fin dai tempi apostolici. Solo il Papa e un Concilio Ecumenico possono decidere. Continuare a parlarne come di una possibilità, può illudere e creare gravi problemi alla formazione dei seminaristi». Tornato in PNG, mons. Cesare mi scrive: «Nella riunione dei vescovi a Port Moresby con i rettori dei seminari, ho constatato la simpatia che i due seminari di Vanimo hanno proprio per la loro struttura e per i frutti, e anche per la situazione critica in cui ci troviamo in PNG, per quelle decisioni che non hanno portato i frutti sperati. Sono in tanti a ispirarsi ai seminari di Vanimo per nuove iniziative di formazione seminaristica. La prossima riunione dei 6 vescovi e dei sacerdoti responsabili della formazione nei seminari verrà fatta a Vanimo, per studiare il sistema che noi stiamo seguendo. Ringraziamone il Signore!».
DA NON PERDERE
Fazzini, Meno male che Cristo c’è. Vangelo, sviluppo e felicità dell’uomo, Lindau, Torino 2011.
Padre Gheddo è un conosciuto e apprezzato missionario-giornalista che è andato in ottanta Paesi del mondo per raccontare la missione, pubblicando poi in oltre cento libri e nella rivista Mondo e Missione, che ha diretto per 35 anni, le sue riflessioni e le sue esperienze. In questo libro, costruito con il suo successore a Mondo e Missione, Gerolamo Fazzini, Gheddo tratta le principali tematiche che interrogano da decenni i missionari, esaminandole alla luce del Magistero sociale della Chiesa. Il lettore potrà accostare i problemi affrontati avvalendosi di un criterio orientativo affidabile, che cioè non risente di quella impostazione progressista penetrata anche nel mondo cattolico e missionario nella seconda metà del secolo scorso.
Il rapporto fra Nord e Sud del mondo, la centralità del Vangelo per un autentico sviluppo umano nei Paesi di missione, il contributo di due encicliche come la Populorum progressio di Paolo VI (1967) e la Caritas in veritate (2009), le difficoltà e le speranze della penetrazione del cristianesimo in Africa, le colpe dell’Occidente ma anche la valenza universale della civiltà occidentale, sono alcuni fra gli scogli attorno ai quali navigano gli autori, portando un contributo di chiarezza e un atteggiamento non supino verso la cultura relativista dominante, non frequenti nel panorama giornalistico contemporaneo. (Marco Invernizzi).
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