15.12.2024

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Post comunisti senza peccato
31 Gennaio 2014

Post comunisti senza peccato

 

 

 

Per uscire dall’imbarazzante vicenda Unipol-Bnl, gli eredi del vecchio Pci hanno riesumato Berlinguer, l’inventore della “diversità morale”.
Sorvolando sul fiume di denaro fatto affluire da Mosca nelle casse di Botteghe Oscure.

 

«Siamo gente perbene. Possiamo anche commettere errori e quando avviene è giusto riconoscerli e discuterne. Ma i Ds sono una forza sana». Così si è espresso l’ascetico Piero Fassino, segretario dei Democratici di sinistra, formazione politica erede del vecchio Pci.
L’ha detto nel pieno della bufera seguita alla pubblicazione delle telefonate intercettate tra lo stesso Fassino e Giovanni Consorte, l’ex presidente di Unipol che ha tentato di scalare la Bnl ed è indagato per una serie di gravi reati («E allora, siamo padroni di una banca?», la frase più inquietante pronunciata dal leader diessino). Ancora Fassino, in un’intervista radiofonica, rivolto ai sostenitori della Quercia: «Non dobbiamo aver nessun imbarazzo. Posso guardare qualsiasi italiano negli occhi, e lo può fare qualsiasi militante o iscritto: i nostri elettori devono essere sicuri che la nostra identità di forza di sinistra non è mai venuta meno e non viene meno in questi momenti».
Negli stessi giorni, i «più amari» della sua segreteria, a detta di Fassino, è più volte intervenuto, con maggior spregiudicatezza, anche il presidente dei Ds Massimo D’Alema. Che ha sentenziato: «Non siamo colpevoli di nulla». E ha rivendicato la «diversità» del partito, la sua intatta superiorità morale.
Non entriamo nel merito della vicenda Unipol-Bnl e del ruolo giocato dai post-comunisti nei contorti intrecci affari-politica degli ultimi tempi (anche se francamente è inaccettabile che si autoassolvano con tanta sfacciata disinvoltura). Ci interessa di più soffermarci sul continuo richiamo ai bei tempi in cui c’era «lui», ovvero Enrico Berlinguer, segretario dal 1972 al 1984 dell’allora Partito comunista italiano (che ha formalmente cessato di esistere nel 1991 per rinascere prima come Pds – con la fuoruscita di Rifondazione comunista – e poi come Ds). Fu infatti proprio Berlinguer che, dopo aver preso le distanze da Mosca e aver promosso con scarso successo la linea del «compromesso storico» con la Dc, puntò appunto, per dare un contenuto alla sua azione politica, sulla «diversità morale» dei comunisti dagli altri partiti. Abbandonando così di fatto l’obiettivo di una rivoluzione sociale rivelatasi ormai di difficile attuazione.
Una sorta di linea maestra, di mito politico-ideologico, la presunta «diversità morale della sinistra», che finora ha resistito nell’immaginario collettivo. «La lezione di Berlinguer vive in noi ogni giorno», ha evocato Fassino, «non per una ragione genetica, ma per i comportamenti che ci ispirano, per l’idea della politica che abbiamo e per come la pratichiamo, per come migliaia di nostri amministratori assolvono alle loro funzioni istituzionali, per come serviamo con passione e generosità il nostro Paese, mettendocela tutta, credendo nelle cose che facciamo, con l’intelligenza e l’energia di cui siamo capaci».
Insomma, dei santi.
Ma questa caratterizzazione quasi antropologica, metafisica, che vedeva, e ancora vede, in una sorta di delirio di innocenza, il partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer (e dei suoi eredi) fuori dagli intrighi e dal malaffare, custodi di una questione morale permanente, quasi fossero, essi soli, immacolati ed esenti dal peccato originale, non corrisponde alla realtà. È una favola a cui credono ormai in pochi, a cominciare dallo stesso elettorato di sinistra. Perché la storia e le indagini giudiziarie hanno provato che Berlinguer ricevette per anni finanziamenti dall’Unione Sovietica, e ciò costituisce una responsabilità politica e morale ben maggiore del possibile coinvolgimento di D’Alema e Fassino nello scandolo Unipol-Bnl di oggi. In altri termini, paradossalmente, la colpa dei Ds non è quella di aver dimenticato la lezione di Berlinguer, ma anzi di insistere nello stesso errore: considerare l’interesse del partito al di sopra della morale e, forse, delle leggi.
Giusto per rinfrescare la memoria, è provato e documentato che i comunisti italiani ricevettero dai «fratelli» sovietici, solo nell’arco di tempo che va dal 1950 ai primi anni Novanta, qualcosa come mille miliardi delle vecchie lire. Attinti dal «Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra». In forma ufficiale, cioè. Esistono le ricevute. La somma lievita se consideriamo i canali informali, il finanziamento a enti e istituzioni legati al Pci, i guadagni delle cooperative rosse per il loro ruolo di intermediazione nel commercio tra Italia e Urss.
«Il fiume della politica per noi non può che scorrere nel letto dell’etica», annuncia oggi Fassino. Ma che dire del fiume di rubli, anzi di dollari (sic!) che si sono riversati sui «compagni» per decenni? «I Ds non hanno conti in Svizzera», tuona ancora il segretario del Botteghino. Ma fino a pochi anni fa c’erano conti aperti da cui si poteva attingere a piacere, presso la Banca di Stato e la Banca per il commercio estero di Mosca. Il denaro veniva recapitato da corrieri del Kgb.
Berlinguer, oggi punto di riferimento ideale di Fassino e soci, guidava un partito che sopravviveva grazie ai fondi di un impero totalitario e schiavista. Così che possiamo tranquillamente affermare, al di là di polemiche contingenti e con uno sguardo più ampio, che più grave che scalare una banca (o magari prendere una tangente) è farsi finanziare, come ha sempre fatto il Pci, da una delle più crudeli dittature del mondo e della storia. Quattrini a palate serviti per «occupare» in modo sistematico sindacati, magistratura, scuole, università, giornali, case editrici. Le banche sarebbero arrivate per ultime. È l’attuazione della lucida strategia elaborata – l’abbiamo scordato? – da Gramsci.
Un fiume di denaro, quindi, da Mosca a via delle Botteghe Oscure. Talmente «diversi», i comunisti nostrani, da accettare senza batter ciglio fondi non solo sottratti ai bisogni del popolo russo, ma provenienti da quel sistema di potere – anche questo ormai è provato e documentato, grazie al lavoro della commissione Mitrokhin – che aveva tentato di uccidere Giovanni Paolo II: sarebbe stato infatti Breznev ad armare la mano di Ali Agca il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro. Il Papa polacco era considerato dall’impero comunista la più grave minaccia alla sua sopravvivenza.
Con l’attentato a Wojtyla il vecchio Pci, additato ancor oggi dai suoi eredi come modello di onestà e «superiorità morale», non c’entrava direttamente, lo sappiamo. Ma i rapporti, soprattutto finanziari, con chi quell’attentato lo decise e lo organizzò, erano chiarissimi.

BIBLIOGRAFIA
Reinhold Niebuhr, Uomo morale e società immorale, Jaca Book, 1968.
Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini & Castoldi, 1993.
Valerio Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci dalla Rivoluzione d’Ottobre al crollo dell’Urss, Mondadori, 1999.
Sergio Bertelli – Francesco Bigazzi, Pci, la storia dimenticata, Mondadori, 2001.

IL TIMONE – N.50 – ANNO VIII – Febbraio 2006 – pag. 8-9

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