Essere sacerdoti è una grazia straordinaria. La più grande che un uomo possa ricevere. La testimonianza toccante di un prete missionario da sessant’anni, felice e innamorato di Cristo
Il 28 giugno 2013 ho celebrato i miei 60 anni di sacerdozio. Sono stato ordinato dal beato card. Ildefonso Schuester il 28 giugno 1953 nel Duomo di Milano. Eravamo 120 nuovi preti (92 della diocesi di Milano, gli altri del Pime e di due ordini religiosi). Nel giugno e luglio scorsi ho celebrato una decina di volte questa ricorrenza, nel mio paese natale di Tronzano vercellese, in varie diocesi e parrocchie e anche dalle suore di clausura di Perego (Lecco). Ho sempre trasmesso questo messaggio: sessant’anni dopo, posso testimoniare che è bello fare il prete. L’annunzio di questa “Buona Notizia” suscita meraviglia e gioia. Qualcuno mi ha detto: «È la prima volta che sento dire questo». Perché è bello fare il prete? Per due motivi, uno di fede e uno molto concreto di esperienza personale che facciamo noi preti a questa meta della nostra vita. Ciascuno poi si esprime a modo suo.
La fede e…
Primo. La fede mi insegna che, come si diceva una volta, “sacerdos alter Cristus”, il sacerdote è un altro Cristo. Nel 1949, quand’ero ancora chierico di teologia nel Pime, la mia carissima nonna Anna che ha preso il posto di mamma Rosetta (morta nel 1934 di polmonite e di parto con due gemelli), mi chiede: «Piero, quanti anni ti mancano per Essere sacerdoti è una grazia straordinaria. La più grande che un uomo possa ricevere. La testimonianza toccante di un prete missionario da sessant’anni, felice e innamorato di Cristo diventare prete?». Rispondo: «Quattro, nonna» e lei dice: «Ci tenevo ad essere presente alla tua prima Messa in paese, ma non ci sarò più. Però tu ricordati che in quel giorno sarai più importante di De Gasperi e di Togliatti, perché chiamerai Gesù che verrà sull’altare e nelle tue mani e lo distribuirai agli uomini». La cara e santa nonna Neta (Anna in piemontese), madre di dieci figli, aveva fatto solo la prima elementare, era semianalfabeta, ma aveva una saggezza evangelica che le permetteva di capire in profondità le verità della fede.
Il mondo non ci crede che il prete è un altro Cristo, ma io ci credo e nella mia vita ho sperimentato che è proprio vero. Noi preti siamo davvero fortunati. Gesù ci ha prediletti e ci ha chiamati uno per uno a seguirlo e poi, per tutta la vita, ti senti amato, consolato, coccolato, perdonato (più e più volte!), fortificato, illuminato, aiutato e a volte tirato fuori per i capelli da situazioni difficili o anche pericolose. Le vocazioni di Dio, se vissute nel suo amore e secondo la sua volontà, sono tutte buone e belle. Ma quella del prete mi pare sia la massima realizzazione a cui un uomo possa aspirare.
San Paolo era innamorato di Gesù, fino al punto di scrivere: «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me. Per me vivere è Cristo» (Fil 3,12); «Quello che per me era un vantaggio, per amore di Cristo l’ho ritenuto una perdita. Considero ogni cosa come un nulla, in confronto alla suprema conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ritengo come spazzatura pur di guadagnare Cristo» (Fil 3,8-12); «La carità di Cristo ci spinge» (2 Cor 5,14); «Chi potrà separarci dall’amore di Cristo?» (Rom 8,35). Nelle lettere di S. Paolo gli esegeti hanno contato 164 volte l’espressione «in Cristo», cioè la vita in Cristo! Questa l’esperienza di S. Paolo, che coincide con la nostra. Noi preti non dobbiamo preoccuparci di quello che preoccupa tutti gli uomini: il nostro futuro, i soldi, la carriera, la vecchiaia. Siamo veramente liberi perché non abbiamo, cioè non dobbiamo avere, altre ambizioni e altri scopi, se non quello di innamorarci del Signore Gesù e di annunziare agli uomini, con la nostra vita e il nostro ministero, la ricchezza e la bellezza della fede e della vita secondo il Vangelo. Diventando anziani, comprendiamo sempre meglio il grande dono che Dio ci ha fatto chiamandoci a seguirlo, e questo dovrebbe renderci felici e realizzati. Se mi pare che non sia vero, il problema è un altro: quanto conta la fede nella mia vita?
… l’esperienza
Il secondo motivo è questo. Siamo convinti, dalla nostra esperienza, che tutti gli uomini e le donne, tutti i popoli e le culture, hanno bisogno di Cristo. Visitando i cinque continenti, mi sono reso conto di questo: anche quelli che non conoscono Cristo, anche quelli che non ci credono, anche quelli che l’hanno abbandonato, tutti aspirano a una salvezza, liberazione, pienezza di vita, felicità, che noi sappiamo vengono solo da Dio e dal Figlio suo Gesù Cristo. Ebbene, noi portiamo agli uomini l’unica ricchezza che abbiamo, Gesù, e questa ricchezza è tale che potrebbe rendere felici e liberi tutti gli uomini. È vero che molti non la accolgono, ma succede che noi preti siamo gli unici lavoratori a non andare mai in pensione, perché sempre richiesti della nostra opera anche in tarda età: questo ci allunga la vita e ci rende felici, sereni.
Ogni dieci anni, noi coscritti e coscritte del 1929 di Tronzano Vercellese ci incontriamo al paese natio per una celebrazione eucaristica e un pranzo solenne. Quando abbiamo compiuto i 70 anni (per gli 80 noi maschi eravamo troppo pochi e non c’è stato più l’incontro), mi sono accorto che i miei coetanei erano tutti in pensione. L’unico ancora al lavoro in modo quotidiano e sistematico ero io, ben felice di esserlo! Parecchi si impegnavano in faccende familiari, in parrocchia, nel volontariato, facevano i nonni e qualche lavoretto occasionale, ma, insomma, erano in pensione. Il prete, se sta bene e mantiene l’entusiasmo degli inizi, in pensione non ci va mai. Trova sempre da occuparsi ed essere utile con un impegno, diciamo istituzionale, che lo mantiene giovane, giovanile.
È vero che non sempre, anche per noi preti, tutto va liscio. La vita riserva a tutti amare sorprese, fallimenti, disgrazie, ingiustizie, incomprensioni, delusioni cocenti, che possono portarci fuori strada. Ma la fede e l’amore a Cristo aiutano a superare tutte le difficoltà.
Racconto un fatto, più comprensibile di ogni discorso. Nel 1976, visitando le missioni del Ciad (dove recentemente sono andati anche due giovani confratelli del Pime), sono passato da un distretto missionario della diocesi di Moundou dove c’era un padre Cappuccino canadese, che mi ha portato in moto a visitare alcuni villaggi dei suoi cristiani. Gente poverissima, analfabeta, con pochi segni di modernità, in capanne di fango e paglia e in una sporcizia che peggio non si potrebbe immaginare. Sapevo che il padre cappuccino era laureato in teologia e stava insegnando in un seminario maggiore in Canada, quando nella diocesi di Moundou è mancato un missionario e vi avevano destinato lui. A cena, riferendomi ai suoi studi, gli dicevo: «Certo che sei capitato in una situazione umana veramente misera, questi poveri vivono quasi a livello dei loro animali!». Lui mi guarda e sbotta: «Ma cosa dici? Non guardare all’aspetto esterno delle persone. Il mio popolo, sebbene ancora ai primi passi dello sviluppo moderno, ha dei sentimenti profondi: sapessi quanto mi vogliono bene e quanto rispondono alla grazia di Dio! Ringrazio sempre il Signore che mi ha mandato qui fra loro, sono veramente contento e realizzato e anche convinto che con la fede e la vita cristiana a poco a poco migliorerà anche la loro condizione umana». Ecco, quella volta ho capito che l’entusiasmo e la gioia di essere prete e missionario è possibile, pur in una situazione che giudicavo miserabile e degna di compassione.
Un’avventura affascinante
Nel gennaio 1979 Giovanni Paolo II a Puebla in Messico, con la sua bella voce baritonale gridava ai preti: «Lasciatevi possedere totalmente da Cristo, siate tutti di Cristo e questo vi renderà anche totalmente disponibili all’uomo. Siate uomini che avete fatto del Vangelo la professione della vostra vita». Questa l’avventura affascinante della nostra vita di preti: seguire Gesù nel cammino che Lui ci indica per essere tutti suoi. La vita spirituale è un percorso lento e faticoso, pieno di errori, di sbagli, di illusioni, di peccati. Ma poi, quando imbocchi la parte discendente della vita, come ora capita anche a me, ti accorgi che tu hai fatto quel poco che hai potuto, ma il resto l’ha fatto il Signore, lo Spirito Santo. Nel mio cuore c’è una grande gioia e ogni giorno chiedo al Signore di ridarmi l’entusiasmo della mia prima Santa Messa, la commozione con la quale visitavo le missioni, scrivevo articoli e libri e predicavo le giornate missionarie, purtroppo oggi, come si dice, “passate di moda” e quasi scomparse. Non importa. Io ho fatto la mia piccola parte, adesso largo ai giovani!
IL TIMONE N. 127 – ANNO XV – Novembre 2013 – pag. 54 – 55
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