La filosofia nasce nell’antica Grecia e “segna” per sempre cultura e civiltà in Occidente. Socrate, Platone, Aristotele “arrivano” a Dio, ma si devono fermare sulla soglia del Mistero. Che verrà svelato solo dalla Rivelazione
Filosofia e religione
Ora, la filosofia ha sempre avuto un rapporto essenziale e reciproco con la religione. Da un lato, infatti, essa riflette sulle convinzioni religiose diffuse, e svolge una funzione di critica. All’inizio, ad esempio, accusò la religione “ufficiale” dei greci di essere antropomorfa, ossia di concepire gli dei a immagine e somiglianza degli uomini. Dall’altro lato, la filosofia accoglie e fa propria l’esigenza insita in ogni religione, di individuare il principio dal quale tutta la realtà deriva e di cogliere che rapporto c’è tra questo principio e l’uomo. Aristotele affermò che la filosofia è scienza divina, sia perché ci porta a conoscere Dio, sia perché ha gli stessi caratteri della scienza che Dio stesso possiede, soprattutto il fatto di essere una conoscenza della totalità e finalizzata alla contemplazione della verità. Quando Gesù nacque a Betlemme, la filosofia antica aveva già visto nascere e morire molti dei suoi più grandi esponenti. Socrate, Platone e Aristotele erano vissuti tra il quarto e il terzo secolo prima di Cristo. Eppure il cristianesimo trovò nel pensiero greco gli strumenti per poter elaborare e trasmettere i propri concetti teologici fondamentali. Questo è vero anche per una parte significativa del primo articolo del Credo, nel quale recitiamo: «Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili». Il pensiero antico, pur nella varietà delle sue elaborazioni, ci mostra che la ragione umana è in grado di cogliere che a) il mondo non è effetto di fenomeni casuali, bensì rivela un principio dal quale esso deriva; questo principio b) è superiore per potenza e qualità a tutto il resto, e quindi è divino e c) deve avere intelligenza, in modo analogo e superiore all’intelligenza che l’uomo manifesta. Infine, d) poiché l’uomo spicca per perfezione rispetto agli altri esseri, se Dio si prende cura di ciò che esiste, si prende cura in modo unico delle cose umane.
Nei poemi di Omero già era presente l’idea che tutto accade per opera degli dei, ad esempio, Zeus lancia i fulmini dall’Olimpo e Apollo fa sorgere il sole trainandolo sul suo carro. La filosofia degli inizi, contrariamente ai miti trasmessi dai poeti, cerca di individuare la causa dalla quale le cose derivano sulla base di motivazioni derivate dalla ragione, e non dalla fantasia. Il primo filosofo, Talete di Mileto (prima metà VI secolo a. C. circa) affermò che esiste un principio unico, causa di tutte le cose, e questo principio, di natura divina, è l’acqua. Eraclito di Efeso, (tra il VI e il V secolo a.C.) propose il fuoco, attribuendogli la funzione di giudice supremo e di intelligenza. Anche Anassagora di Clazomene (500-428 a.C. circa) intuì che il divino dovesse essere intelligenza, ma questa era definita ancora in termini materiali, come «la più sottile e più pura di tutte le cose». Benché l’intelligenza fosse intesa in senso impersonale e fisico, come la regola per cui le cose si realizzano e non come un soggetto che pensa, questa acquisizione implica già un passo avanti nella ricerca del principio di tutto.
I Pitagorici affermarono che la realtà si può descrivere in termini matematici, dunque il numero è il principio di tutte le cose. Ciò significava riconoscere che l’universo è ordinato, è cosmo, e non caos. Questa intuizione è di fondamentale importanza per ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. Se infatti il mondo è un caos privo di regole, cercarne il principio diventa impossibile. Se invece è un tutto ordinato, diventa importante, per conoscere il senso delle cose e dell’uomo, andare alla ricerca del principio da cui tutto deriva. Ma ancora di più: la struttura numerica della realtà indica anche che essa è ordinata secondo una regola conoscibile dall’uomo. L’ordine con cui Dio ha posto il mondo è accessibile, anche se in forma limitata, alla mente umana.
La “scoperta” di Socrate
Le soluzioni date dai primi filosofi alla questione del principio erano accomunate dal fatto di rimanere al livello delle cose naturali. E lasciarono insoddisfatti anche i loro contemporanei. Tra tutti, Socrate rifiutò così nettamente quelle prospettive, da abbandonare la questione dell’origine del cosmo e dedicare la sua attenzione all’uomo. La sua scoperta più importante fu allora che l’essenza dell’uomo sta nella sua anima, che è la sede della sua coscienza, il principio della sua individualità e delle sue attività intellettuali. Dall’anima è possibile affermare qualcosa di importante anche su Dio: essa infatti per Socrate è quella parte dell’uomo che più partecipa del divino. Neppure Socrate ha ancora l’idea del divino come essere trascendente, ma ha chiaro che Dio non può assomigliare agli dei venerati dalla religione ufficiale. Tale convinzione fu tra le accuse che gli furono imputate al processo che gli costò la condanna a morte. Nell’Apologia che Platone scrisse raccontando l’autodifesa del suo maestro, Socrate afferma di essere sempre stato convinto del fatto che Dio gli avesse affidato il compito di insegnare agli Ateniesi a prendersi cura della loro anima, e riguardo a questo incarico aveva sempre preferito obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Secondo la testimonianza di Senofonte (Memorabili I, cap. 4, ss.), inoltre, Socrate intendeva il divino come intelligenza ordinatrice, perché solo un principio intelligente può spiegare perché l’universo ci si presenta come dotato di ordine e finalità. Inoltre, egli affermava che il possesso dell’anima mostra che l’uomo occupa una posizione privilegiata tra gli esseri: questo è segno del fatto che la cura che Dio gli riserva è del tutto particolare. Anche se in Socrate manca una vera e propria fondazione teoretica della sua concezione dell’anima e del divino, possiamo scorgere nella sua filosofia una nozione di provvidenza divina, come cura di Dio per l’uomo, e in particolare per l’uomo virtuoso. Socrate anche obietta a coloro che dubitano che Dio esiste perché non lo vedono, rispondendo che neppure l’intelligenza umana si vede, eppure nessuno ne dubita.
Il “demiurgo” di Platone
Il passo più importante compiuto dalla filosofia di Dio degli antichi va attribuito a Platone. Si tratta della scoperta della dimensione spirituale, sovrasensibile, della realtà. Platone risolse la domanda posta dai suoi predecessori sul principio della realtà, almeno nella sua prima importante questione: le vere cause delle cose non vanno cercate nel mondo che sperimentiamo con i sensi, ma in una dimensione che trascende la materia, che è meta-fisica. All’origine di ciò che muta ci deve essere qualcosa che non muta, all’origine della materia, ci deve essere qualcosa che non è materiale, all’origine del tempo ci deve essere l’eterno.
Platone rimane pienamente greco nel fatto di non concepire il divino in modo monoteistico. La realtà è effetto delle forme o idee, e soprattutto del Bene, che è principio sia delle cose che esistono, sia della possibilità di conoscerle. Le idee supreme, a loro volta, derivano da due principi, l’Uno e la Diade indeterminata. Il fatto che non ci sia un solo principio è, per Platone, necessario per spiegare il fatto che la realtà ha unità, ma anche molteplicità. I principi primi sono impersonali, eppure la realtà è frutto dell’intelligenza di un “artefice” (Demiurgo), che crea le anime, alcune delle idee, gli elementi materiali e poi le cose della natura, avendo il Bene come modello (Repubblica, X, 597 A-D). Egli dunque non crea dal nulla, ma ordina l’universo, disponendo le cose nel modo migliore (Fedone, 97 B-99 D). Platone distingue tra il Bene, indicato con il termine neutro, quindi impersonale, e Dio che è buono, ed è indicato al maschile, come colui che è buono e non può essere causa del male (Repubblica, II, 379 A-C.). Secondo l’interpretazione di Giovanni Reale, dunque, in senso proprio Dio è il Demiurgo, che va inteso in senso personale, perché è dotato di intelligenza e volontà (Timeo, 29 E.). E gli altri Dei sarebbero creati dal Demiurgo. È quindi possibile rinvenire in Platone un passo significativo nella direzione del superamento del politeismo.
Il “motore immobile” di Aristotele
Aristotele fa propria l’acquisizione platonica della realtà sovrasensibile, ma introduce nuove analisi riguardo alla dimensione metafisica della realtà (ad esempio la distinzione tra materia e forma, tra sostanza e accidenti, tra potenza e atto, tra quattro tipi di causalità) e alcuni significativi cambiamenti. Il più importante riguardo alla concezione del divino è l’identificazione del Bene con il fine cui tutta la realtà tende.
Per spiegare la realtà di cui abbiamo esperienza, soggetta al mutamento, deve esserci un principio che non muta, eterno, immobile, ma in grado di muovere tutto il resto. Per Aristotele tale principio è vita capace di pensare, e pensa la cosa più eccellente, se stesso. Muove il resto per attrazione, come oggetto di desiderio, ma senza essere mosso da altro, non crea, è oggetto di amore, ma non ama. È questa la teoria del motore immobile. Il vertice della vita morale dell’uomo è dato dalla contemplazione intellettuale, perché questa è l’attività che più assomiglia all’attività divina. Se, da un lato, molti concetti dell’etica e della metafisica aristotelica diventeranno parte essenziale della filosofia cristiana, la concezione del divino di Aristotele è diametralmente opposta all’idea cristiana di un Dio Padre che crea per amore e si prende cura dell’uomo fino a sacrificare Suo Figlio per salvarlo.
Se dunque ritorniamo al primo articolo del Credo, citato all’inizio, i due concetti che restano estranei al pensiero greco sono quello di Dio che crea dal nulla e quello della paternità di Dio. Soprattutto questa presuppone la concezione di un Dio personale che ama gli uomini ad uno ad uno, e sia il concetto di amore gratuito sia quello di persona entreranno nella filosofia solo in epoca cristiana.
Per saperne di più…
Giovanni Reale, Storia della Filosofia Antica, Vita e Pensiero, 1987, voll. 1-2.
Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, 1995.
Paola Premoli De Marchi, Chi è il filosofo? Platone e la questione del dialogo mancante, Franco Angeli, 2008.
Dossier: IL MISTERO DELLA PATERNITÀ DIVINA
IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 36 – 38
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