Pagare con la propria vita la fedeltà a Cristo e alla Chiesa è una circostanza che può capitare a ciascuno di noi. Come prepararsi? Essenziale l’umiltà
Amici lettori saremmo davvero pronti al martirio se ci trovassimo concretamente nella circostanza di dover dare la nostra vita per Cristo?
Non sembri eccessivo l’interrogativo con il quale si apre questa nostra riflessione. Quella che, infatti, fino a qualche anno fa poteva sembrare una domanda retorica ora, come sappiamo, è di grande attualità in molti luoghi del mondo. Le statistiche, infatti, parlano chiaro, dimostrando come la religione cristiana sia oggi la più perseguitata. Così, in alcuni Paesi, dove si sono andati risvegliando i fondamentalismi islamici o induisti, è addirittura spesso caccia aperta ai seguaci di Gesù. In altri luoghi, invece, si tratta di una lotta meno manifesta, più subdola e strisciante, ma non per questo meno pericolosa. Una opposizione che spesso, come le cronache ci riferiscono, nelle sue forme più cruente sfocia nel sangue. O che, quando tale lotta è più nascosta, obbliga i cristiani a vivere tanto male da far loro preferire di lasciare la patria per emigrare in altri Paesi. Con la conseguenza pratica di comunità sempre più ridotte nel numero e dunque più esposte e fragili fino al pericolo della estinzione.
Così, sta succedendo che quei racconti dei martiri dei primi secoli che, anche solo nella mia infanzia, sembravano ormai solo storie quasi favolose e comunque lontane dalla nostra esperienza, sono all’improvviso ritornate di attualità, dandoci un serio scossone e imponendoci una riflessione che sfocia appunto nella domanda con la quale abbiamo aperto: «se noi ci dovessimo venire a trovare nella situazione di molti nostri fratelli nella fede, saremmo davvero disposti a dare la vita per testimoniare la nostra adesione a Gesù?».
Io mi permetterei di consigliare, anzitutto a me stessa, di non rispondere troppo in fretta di sì. Facendolo magari sull’onda di uno slancio emotivo che non si sa quanto sarebbe in grado di resistere non di fronte ad una possibilità remota di martirio ma davanti ad una minaccia concreta. E questo perché sono convinta che l’essere disponibili a dare la vita per Gesù richieda una preparazione profonda, che maturi cuore e mente e che li renda davvero convinti e capaci di saper mantenere la fede anche nelle circostanze più difficili. Pensiamo, infatti, non solo al caso di una morte che giunga improvvisa, seppur magari annunciata da numerose angherie che l’hanno preceduta. Ma anche al caso di catture e prigionie, magari etichettate in modo diverso, ma che hanno in realtà lo scopo di stremare una persona fino a farle rinnegare la propria religione. Come è possibile, infatti, resistere talvolta per lunghi anni a stress fisici e psicologici così forti da poter uccidere insieme corpo e spirito?
Tanto più che è il Vangelo stesso a farci capire come essere deboli anche di fronte alla fede sia una caratteristica della natura umana. E come dunque non sia facile resistere in circostanze avverse. Valga per tutti il rinnegamento di Pietro. Pensiamoci bene: egli era stato certamente un privilegiato, perché aveva avuto la possibilità di conoscere Gesù per esperienza diretta. Lo aveva inteso parlare, ne aveva visto i tanti miracoli, era addirittura stato scelto per quel gruppetto di apostoli che Gesù si era portato sul Tabor dove aveva vissuto la grande avventura di assistere alla sua trasfigurazione. Eppure, quando la serva del sommo sacerdote lo aveva messo alle strette, riconoscendolo come seguace di quel tale che era stato arrestato; quando questa etichetta minacciava di renderlo un nemico agli occhi dei suoi correligionari, ecco scattare la molla della paura, quella difesa della sua vita che lo induce in un attimo a rinnegare tutto. Poi, come sappiamo, si pentirà amaramente fino a piangere calde lacrime per questa sua debolezza ricordando come Gesù stesso gliela avesse predetta. Quel Gesù che, del resto, gliela perdonerà al punto da fare di questo suo apostolo il capo stesso della Chiesa nascente.
Dati questi precedenti, credo dunque che avere timore di non farcela quando le circostanze dovessero farsi particolarmente avverse per la nostra fede sia non solo naturale ma addirittura salutare, perché ci fa capire l’utilità di una preparazione, diciamo così, remota. E, inoltre e soprattutto, perché ci mantiene nell’umiltà necessaria per affrontare una persecuzione nel nome di Gesù che potrebbe giungere anche fino alla necessità di donare la nostra vita.
Preparazione e umiltà, dunque. Preparazione che significa anzitutto riflettere su che cosa sia per noi la fede e quel Gesù che la incarna. È chiedersi se abbiamo capito che egli è ciò che conta di più per la nostra vita: più della nostra famiglia, più del nostro lavoro, più della nostra onorabilità, più del nostro stesso giusto desiderio di continuare a vivere. E questo perché è da lui che la nostra vita prende origine e si mantiene e, dunque, è rinsaldando sempre più il rapporto con lui e da niente altro che la nostra stessa esistenza prende il suo vero significato. E che è offrendola fino anche al martirio, come del resto anch’egli ha fatto verso il Padre, che la si ritrova davvero. Tutto questo non per un macabro scambio di un Dio che chieda vittime e sangue, ma perché tutto si svolge in una logica che è d’amore. Un amore che si offre per creare amore, un amore che passa attraverso la morte ma per generare nuova vita.
Sì, perché ogni martire non è altro che un nuovo crocifisso seppure in forme diverse dal primo. È un uomo che, ad imitazione del Maestro per eccellenza, è disponibile a completare in sé quella passione che il Figlio ha vissuto. A completare non nel senso che quella prima fosse in qualche modo mancante, ma nel senso che è un cammino che ciascun credente deve fare proprio e percorrere nelle forme e nei modi che Dio stesso gli svelerà. E potrà allora trattarsi del dolore di una vita ordinaria – pur esso stesso spesso martirio, anche se non cruento – oppure di una adesione di fede che giunga fino alla donazione esplicita della propria vita in una forma di testimonianza che può arrivare fino al sangue.
Ma tutto ciò non è evidentemente uno scherzo, una cosa che possa essere fatta con superficialità, ma un gesto che non può che nascere dal profondo di un cuore che ha scoperto quella divina paternità che è intessuta d’amore e che nel Figlio ha avuto la sua manifestazione più grande. Un cuore che già si sia arreso a ridonare, ben prima del martirio, la propria vita a quel Dio che per primo gliela aveva donata abbandonandosi sereno alla sua provvidenza e abbracciando con mansuetudine la logica della croce. Un cuore che abbia accettato con pienezza il paradosso di quella buona novella presente nel Vangelo che ci insegna che chi «perde la sua vita per amore mio la troverà» e che «chiunque vuole essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua». Un cuore in poche parole che, convertito con generosità, avrà già sperimentato nella sua esistenza come il Vangelo conceda effettivamente ciò che promette, cioè pace, gioia, pienezza di vita a chi tenti, pur nei suoi limiti, di prenderlo sul serio.
Ecco, dunque, quella che potrebbe essere la preparazione remota ad un martirio che potrebbe prima o poi raggiungere anche ciascuno di noi e che non è altro, a ben vedere, che una vita di fede vissuta con sincerità e impegno.
Ma si diceva anche della necessità della umiltà. È da essa e solo da essa, infatti, che può generarsi quell’atteggiamento dello spirito che sa che è Dio e solo lui la nostra vera forza, quella su cui davvero contare. Abbiamo già visto, infatti, come per quanto il nostro impegno possa essere grande e radicato il desiderio della fedeltà a Dio in ogni circostanza della vita anche la più difficile, a ben poco varrà se non sarà accompagnato dalla contemporanea coscienza della fragilità che comunque è presente nel nostro cuore.
Una fragilità simile non solo a quella di Pietro che già abbiamo richiamato, ma a quella dello stesso Gesù. Il quale, pur pienamente consapevole di dovere offrire se stesso per amore di tutti gli uomini al Padre e pur disponibile a farlo, come più volte aveva rivelato agli apostoli, tuttavia nel momento supremo avverte lo strappo che tutto ciò comporta e la sofferenza che ne deriva. Lo avverte fino a sudare sangue, cioè con una emozione interiore così forte da causargli uno stress anche fisico di rilevanza eccezionale. È così che, solo davanti a quel Dio che gli è Padre, gli apre il cuore rivelando tutta la paura e l’angoscia che lo attanaglia ma anche chiedendo quell’aiuto che è certo non gli mancherà: «Passi da me questo calice ma sia fatta non la mia ma la tua volontà». Niente di più, niente di meno in questo esempio supremo al quale attingere sempre, dalla vita ordinaria fino alle circostanze estreme. Nessuna spavalderia dunque, nessun atteggiamento da monumento in bronzo. Solo un abbandono totale all’amore, nella fiducia serena dell’aiuto sicuro anche in circostanze terribili. Nella certezza che quel Dio che è fedele non potrà che sostenere con il suo Santo Spirito il nostro spirito piccolo e fragile sì, ma che tuttavia desidera ardentemente.
IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 56 – 57