Passano gli anni e le forze vengono meno. Può capitare di avere bisogno dell’aiuto altrui e di essere condotti – come profetizzato a Simon Pietro – dove non si vuole andare. Ma si apre una possibilità straordinaria: abbandonarsi totalmente all’amore e alla volontà di Dio. E capire che la nostra meta è il Cielo
Mi perdoneranno i lettori più giovani se questa volta, parlando un po’ anche di me, finirò per rivolgermi soprattutto ai miei coetanei o giù di lì. Ma ciò che scrivo sgorga da una esigenza interiore che credo non sia bene soffocare, da un’esperienza che penso sia di molti da una certa età in su. E forse anche, almeno per certi aspetti, di chi, pur più giovane, incappa in situazioni che lo portano a fare conti ravvicinati con la propria debolezza umana.
Quanto a me, già da qualche anno superata quella soglia che la Bibbia definisce come un limite che solo a qualcuno è dato di superare («gli anni dell’uomo sono settanta, ottanta per i più robusti» e, nonostante tutti i progressi della medicina, più o meno stiamo ancora lì attorno), quanto a me, dicevo, credevo da tempo di aver preso coscienza del “passaggio” all’ultima fase della vita. E invece mi illudevo, perché mi sono resa conto che in realtà il cammino da compiere è lungo e richiede continui aggiornamenti di programma.
Qual è in sintesi il nocciolo della questione? È il cambiamento progressivo a cui con il trascorrere degli anni ciascuno di noi va incontro. Cambiamento che è continuo, ma con una grande differenza e cioè quella che fino ad un certo punto della vita lo svolgersi dei giorni è una sorta di crescere verso un meglio. Poi, a partire da un momento, diverso per ognuno di noi, è invece una sorta di decrescere, qualche volta improvviso qualche altra diluito nel corso degli anni. Normalmente, a meno che non ci siano gravi problemi, la risposta a tutto questo è un adattamento progressivo; fino a un certo punto però. Fino a quando cioè davvero cominci seriamente a intuire che cosa sarà la vecchiaia, quella vera, quella pesante, quella che magari potrà portarti anche all’invalidità fisica o, forse ancor peggio, a quella mentale, psicologica. E questa presa di coscienza piena della gravità del problema non avviene molto presto, almeno a stare alla mia esperienza. Credo infatti che ciascuno di noi abbia delle difese – penso naturali e giuste – che gli impediscono di proiettarsi troppo in avanti (come, del resto di rimanere ancorati al passato). È quel sano vivere alla giornata di cui parla anche il Vangelo: «Basta ad ogni giorno il suo affanno ». Il quale Vangelo, tuttavia, ha anche frasi inquietanti destinate a provocarci e a farci riflettere; come quella rivolta a Pietro da Gesù stesso proprio dopo avergli assegnato il mandato così importante di reggere la sua Chiesa: «In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Ho l’impressione che si tratti di una sintesi efficacissima di ciò che attende, dal più al meno, tutti noi, anche chi, come un Papa, è salito tanto in alto nel prestigio e nel potere umani. Una di quelle frasi che solo a un certo punto scopri davvero e inizi a capire che può riguardare anche te.
Così, sulle prime, giustamente ti spaventi perché dentro ti si scontrano quell’istintivo amore per la vita che ti porta a desiderare di vivere il più a lungo possibile, ma insieme una grande paura. Forse che è bello immaginarsi invalidi magari per anni, dipendenti dagli altri che quasi necessariamente finiscono per “portarti dove non vuoi”? Oppure, temere di perdere quelle facoltà mentali e psicologiche che magari hai cercato continuamente di sviluppare e che ti hanno costituito come persona? Non è dunque comprensibile, a viste umane, quella che la cultura di oggi, spesso chiusa alla dimensione soprannaturale, propone e insegue come una meta di civiltà e cioè l’eutanasia? Cioè, quel poter decidere di sé fino al punto di poter scegliere di morire se il carico di sofferenza fisica o psicologica si è fatto troppo grande?
È vero che si possono fare molti sottili, elevati e giusti ragionamenti al proposito per dimostrare che la vita va accettata fino all’ultimo soffio. Ma, a mio avviso, non è una filosofia, così come non è neanche una legge, per quanto buone esse siano, che ti possono liberare dalla paura, sciogliere quel nodo di angoscia che ti attanaglia quando il problema da teorico si fa pratico, esistenziale. Quando, in poche parole, ti si fa vicino e capisci che potrebbe riguardare anche te.
E allora, che cosa fare? Non so se quello che ho fatto io è sufficiente. Posso provare a raccontarvelo. Mi è parso anzitutto di capire che, per l’ennesima volta, ma in modo ancor più radicale, fosse la fede ad entrare in gioco, perché ormai nulla poteva darmi pace se non un abbandono totale, radicale a Dio. Un abbandono così pieno, e mai sperimentato prima, da raggiungere ogni fibra dell’essere, tale da invadere corpo, mente, spirito. Forse davvero simile, finalmente, all’atteggiamento di quel bambino di cui parla il Vangelo, come del modo più sicuro per entrare nel Regno.
Quella fiducia assoluta di chi non può contare su altro al di fuori di Dio. Quella che taglia alla base ogni altro sostituto; che falcia fino alle radici le molte idolatrie che tutti, dal più al meno, abbiamo coltivato, spesso con grande cura. Per scoprire così che quella vecchiaia guardata con tanto sospetto e timore ha in realtà il privilegio e la potenza di trasportarti in quel deserto interiore da sempre indicato come la situazione che meglio di ogni altra apre la strada all’incontro pieno con il divino. Perché in essa, finalmente “nudo” e libero da ogni “distrazione” (divertissement, per dirla come Pascal), ti ritrovi a tu per tu con te stesso, intuendo così fino in fondo il tuo limite. E, in un momento di verità e di umiliazione, capisci che quella tua vita che se ne sta andando inesorabilmente e magari ingloriosamente verso la fine, rischia davvero un totale non senso. Ma anche per sperimentare che proprio tale vecchiaia è un’occasione formidabile di liberazione interiore perché, se “molli” davvero, essa ti offre la possibilità di scoprire fino in fondo – e forse per la prima volta con tanta intensità – la gioia dell’abbraccio divino dentro al quale arde il desiderio di comunicarti quel suo stupefacente progetto d’amore verso ogni sua creatura. E insieme di capire assai meglio di prima di avere davvero bisogno di quel Verbo di Dio che si è fatto carne anche per te. Di quel Gesù che ti ha preceduto nella sofferenza e nella umiliazione proprio per riscattarle e per accompagnare ora anche te, passo dopo passo, attraverso quel Calvario dal quale egli è già passato fino oltre la morte, incontro alla risurrezione.
Ma al contempo, è allora che, dissoltasi la paura, nella certezza di questo accompagnamento divino che dà un senso ad ogni respiro fino all’ultimo soffio, fai esperienza che puoi tornare alla vita, alla tua vita. È allora che, pacificato, puoi riassumerla con pienezza, addirittura con gioia, guardando con benevolenza a quel poco che potrai fare con le tue forze sempre più limitate, certo che avrà comunque un valore. Anche se a un certo punto consistesse solo in un soffrire ed amare come Gesù e con Gesù.
In attesa di quell’altra vita che ti attende e che ora non ti appare più – altro dono della vecchiaia – come una realtà lontana e improbabile, ma come il futuro prossimo che si avvicina sempre più. Perché se è vero che in ogni fase della nostra esistenza la fede dovrebbe portarci a riflettere sul destino eterno che ci attende, è anche vero che molto ci distrae da questo pensiero negli anni in cui tante cose umane impegnano gran parte delle nostre energie.
E invece, quando il carico degli anni obbliga, ma al contempo permette di porsi un po’ in disparte uscendo dalla affannosa ruota del quotidiano, proprio mentre i progetti umani necessariamente si contraggono, ecco che ti accorgi che può invece riprendere spazio e dilatarsi il “grande progetto”. Quello per il quale siamo stati creati e che a differenza di quello terreno non finirà mai.
Certo: quell’inferno che dobbiamo cercare in tutti i modi di evitare, quel purgatorio che laverà le nostre ultime colpe ma poi alla fine anche quel paradiso al quale il nostro animo aspira. Quello stato di beatitudine intessuto di amore, di comunicazione e comprensione reciproca totali. Là dove Dio sarà tutto in tutti non cancellando le nostre individualità che anzi, con la risurrezione dei corpi, raggiungeranno la loro pienezza. Ma, come già ora all’interno della Santa Trinità, con un vincolo d’amore che esalta le differenze ma insieme le pone in una relazione così intima e stretta da raggiungere l’unità.
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 56 – 57
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