In Germania è assai noto, mentre da noi non è mai riuscito a sfondare: tradotto, sì, ma da piccoli editori con scarsa distribuzione. Parlo di Karlheinz Deschner, naturalmente un ex-seminarista o ex-prete, ormai sull'ottantina, che, dopo aver rotto con la Chiesa, si è dedicato a un'opera maniacale, da vero erudito tedesco, cui ha dedicato la vita intera. È una sorta di enciclopedia in più volumi che, in tedesco, ha un suono ancora più inquietante: Kriminalgeschichte des Christentums, cioè "Storia criminale del cristianesimo".
Il progetto è specificato nei risvolti di copertina: dimostrare come «il cristianesimo sia la quintessenza della barbarie, della violenza, del fanatismo, dell'intolleranza, della brama di potere». Precisando ancor di più: «Un'indagine completa, attraverso venti secoli, per provare che persecuzione dei diversi, umiliazione della donna, oppressione dei deboli, odio teologico, delirio missionario, condanna del libero pensiero, superstizione, ostilità contro la scienza, repressione della gioia di vivere appaiono non già come sporadici, degeneri frutti di una pianta in sé sana e benefica, ma come connotati stabili e consustanziali al cristianesimo». Rifiuto radicale, dunque, di quelle che Deschner chiama «le tardive, reiterate scuse di un pontefice»: è la pianta in quanto tale che va sradicata, i suoi frutti sono sempre tossici. Non c'è, non può esserci un «cristianesimo buono».
L'intenzione di questo tedesco è particolarmente aggressiva ma il suo progetto non è certo isolato, si ripresenta ad ogni generazione in Occidente sin dal Settecento. Quando, in qualche modo, fu ripresa l'altrettanto virulenta ostilità pagana, alla Celso per intenderci. Non a caso in queste occasioni nacque, e poi rinacque, l'apologetica.
Sono dispute con le quali da sempre mi confronto ma, lo confesso, senza mai scandalizzarmi o sorprendermi. Posso seccarmi, magari (moderatamente) arrabbiarmi se – come spesso capita – le notizie sono false, i dati manipolati, le informazioni ambigue.
Per esempio: apro del tutto a caso uno dei volumi (ogni frase, del resto, esigerebbe una replica) e trovo che Deschner scrive: "Ulderico Zwingli, una volta sgozzato, venne squartato, bruciato e, per disonorarlo, alle sue ceneri vennero mischiati escrementi di maiale». Calma! Le cose vanno spiegate e inquadrate, così suonano false. Zwingli è, come si sa, il più fanatico dei riformatori, nonostante prenda inizialmente spunto da quel personaggio tutto sommato ambiguo, ruffianamente pacifista ed ecumenico che è Erasmo da Rotterdam. Anche Lutero e Calvino non scherzavano quanto ad aggressività, ma Zwingli è convinto che la Riforma debba trionfare necessariamente con le armi alla mano, impugnate dagli stessi religiosi, non soltanto appoggiandosi ai Principi e lasciando a loro la guerra. Tanto per dire: quando quell'ex-prete di Zurigo fu ucciso in battaglia, Lutero esclamò: "Zwingli ha avuto la morte di un assassino». Aggiungendo poi: "Zwingli ha minacciato con la spada, dunque ha avuto la mercede che si meritava. Se Dio l'ha ricevuto nella sua grazia, avrà fatto un'eccezione alla regola indicata dalla sua Parola». Non si dimentichi che chi parla qui è fra' Martino, l'uomo che incitò alle stragi dei contadini quando, avendo il solo torto di prendere sul serio la sua predicazione e di trame le conseguenze, impugnarono le armi. Persino il durissimo Calvino disapprovò severamente l'incitazione alla violenza che caratterizzava l'insegnamento zwingliano.
Il redde rationem, per questo distruttore, più che riformatore, che nulla lasciava in piedi del cristianesimo anteriore, giunse quando pretese che i cantoni svizzeri protestanti impedissero il passaggio nel loro territorio delle carovane che da sempre portavano ai cantoni cattolici i rifornimenti alimentari di cui avevano bisogno per sopravvivere, vista la povertà dell'agricoltura di montagna. Di fronte a questo embargo che ne minacciava la sopravvivenza stessa, gli svizzeri restati fedeli a Roma unirono le truppe, marciarono contro gli zurighesi e ne distrussero l'esercito nella battaglia di Kappel, l'11 ottobre 1531. Zwingli, fedele alle sue idee dell'intervento diretto degli ecclesiastici I nella violenza, partecipò al combattimento, indossando la corazza e maneggiando un'ascia e una mazza. Ferito e disarcionato, non fu riconosciuto e fu ucciso con un colpo alla gola da un fante avversario. Quando ci si rese conto di chi fosse, ci si ricordò che l'Imperatore lo aveva fatto condannare a morte in contumacia per le rivolte che aveva fomentato contro le autorità costituite. L'Imperatore, dico, non le gerarchie ecclesiastiche. Comunque, secondo le leggi civili allora vigenti, il suo corpo fu consegnato al boia che, a scopo di ammonizione, procedette – come da uso crudele allora vigente presso tutti gli Stati – allo squartamento e all'abbruciamento. Il tutto senza alcun coinvolgimento diretto della Chiesa: come "laica" era stata la guerra (una questione di vita o di morte per i cantoni cattolici), "Iaica" fu la conclusione, con la fine del capo dell'esercito sconfitto. Questi i fatti reali: dunque, quanto scrive Deschner è fuorviante. Occorre reagire, così come di fronte alle infinite deformazioni in cui ci si imbatte in questa e in altre opere.
Reagisco, dunque: ma ne faccio una questione di serietà storica, non lo spunto per un'indignazione etica né motivo di stupore che qualcuno possa avere della fede e dei fedeli una visione così negativa. In fondo è giusto, è normale che sia così.
Non dimentichiamo mai che, per preservare la nostra libertà, il Dio cristiano, secondo l'icastica espressione pascaliana, «ha dato abbastanza luce per credere e ha lasciato abbastanza ombra per negare». La Chiesa è il mistero del Corpo di Cristo e, al contempo, un'istituzione che deve vivere nel mondo: come tale, è soggetta a critica, non sempre e non del tutto ingiustificata. C'è chi si ferma alla struttura, solo il credente può scorgere la Realtà vera dietro di essa. E, già che siamo a Pascal, aggiungiamoci un'altra sua osservazione illuminante: «Le cose ci appaiono vere o false a seconda del punto di vista dal quale le si osserva». E il punto di vista della fede è spesso antitetico, comunque diverso, da quello del "mondo".
E’ una consapevolezza che mi ha accompagnato particolarmente proprio in questo periodo in cui ho lavorato attorno a un libro singolare che, ne sono certo, susciterà compiacimento nel lettore credente e sdegno in quello incredulo. Autore del volume è Edgardo Mortara. Ma sì, proprio il bambino ebreo "rapito" da Pio IX in quanto, battezzato furtivamente da una domestica quando sembrava in punto di morte, secondo il diritto canonico (che era allora anche legge civile: siamo nella Bologna del 1858) doveva essere allevato cristianamente. Almeno sino ai 18 anni, quando della sua vita avrebbe fatto ciò che voleva. Ne nacque un immenso clamore, quel "caso Mortara" che fu gonfiato non solo dalle comunità ebraiche di tutta Europa e dell'America, non solo dalla massoneria, ma anche da politici come Cavour che vi videro un'ottima occasione per denunciare l'anacronismo e la barbarie del potere temporale del Papa. È passato quasi un secolo e mezzo ma il "caso Mortara" è usato ancora come arma da guerra, anche per ricatto nel dialogo con gli ebrei: non vi pentirete mai abbastanza voi cattolici, non ci chiederete mai abbastanza scusa, voi che siete arrivati a strappare i bambini dalle braccia delle madri israelite! Si è cercato in tutti i modi di contrastare la beatificazione di Pio IX, nell'autunno del Duemila, gridando allo scandalo: elevare agli altari un "santo rapitore"! L'AntiDefamation League degli ebrei americani è giunta a comprare una pagina intera del Washington Post per ammonire Giovanni Paolo Il a non procedere alla glorificazione di un suo predecessore così turpe. Numerosi, poi, i cattolici "adulti e aperti" che mettono Mortara nel pesante passivo di una Chiesa che, come si sa, soltanto con il Vaticano Il avrebbe scoperto che cosa sia davvero il Vangelo.
Del celebre affaire si è dunque parlato, e si parla tuttora, fin troppo, ma con una singolarità: ci si è concentrati sempre e solo sugli inizi della vicenda, dimenticando il resto.
Che non è indifferente, visto che il bambino "rapito" volle farsi sacerdote, anzi monaco nell'Ordine del Canonici Regolari, assumendo come nome di religione quello di Pio, in omaggio a quello che venne, e viene, presentato come suo carnefice e verso il quale, invece, non cessò di elevare inni di riconoscenza e di affetto. Per salvare la sua libera scelta religiosa, giunse a scappare nottetempo dalla Roma occupata dai Piemontesi, nel 1870, e non volle rientrare in Italia per non prestare servizio militare nell'esercito di uno Stato che non riconosceva. In grado di predicare in cinque o sei lingue, sospinto da una fede ardente, visse una vita religiosa ricca e piena, morendo in odore di santità sulla soglia dei novant'anni, mai cessando di lodare la Provvidenza che, per mano della ragazza che lo aveva battezzato e di Pio IX che lo aveva difeso, gli aveva permesso di entrare in una Chiesa che amava in modo appassionato.
Di tutto questo (che è poi ciò che conta) non parlano mai quelli che ancora strumentalizzano il "povero bambino". AI massimo, ne fanno un cenno sbrigativo, magari dicendo che proprio questa vita così integralmente cattolica del Mortara è un'aggravante per la Chiesa: a tal punto ha saputo plagiare una persona! Ecco un buon esempio di "sindrome di Stoccolma": il sequestrato, cioè, che finisce coll'identificarsi con la causa dei sequestratori.
Stanco di questa sorta di tormentone (rinnovatosi di recente anche per la polemica giornalistica sui presunti battesimi a bambini ebrei sotto il pontificato di Pio XII) e sapendo che il padre Pio Edgardo Mortara aveva scritto una sua autobiografia che però era circolata solo tra i suoi confratelli, mi sono messo alla ricerca del testo. Non è stato difficile, ne ho rintracciato una copia – in una sorta di ciclostile d'epoca – là dove era più logico che fosse: e, cioè, nell'archivio romano dei Canonici Regolari. Il religioso italiano scrisse in spagnolo, visto che allora si trovava nei Paesi Baschi per costruirvi un santuario al Sacro Cuore, una delle tante opere da lui realizzate. Ho dunque proceduto alla traduzione del testo, vi ho aggiunto qualche nota e ho scritto alcune decine di pagine, una sorta di piccolo saggio di presentazione e di commento. Il tutto uscirà da Mondadori il prossimo giugno.
Se ne accenno qui non è soltanto perché si tratta, credo, di un'opera di giustizia e di verità: sembra incredibile che da quasi un secolo e mezzo pontifichino, indignati, gli infiniti, spesso pelosi difensori del povero rapito e dei suoi sventurati genitori, ma che non sia mai stata data la parola al diretto interessato. L'autore stesso lo dice, in queste sue pagine: «Sinora si è parlato di Mortara. Lasciate che, adesso, sia Mortara stesso a parlare». Ed è un discorso, il suo, radicalmente opposto a quello portato avanti da quei "difensori" sospetti.
Ma ne parlo anche perché, come dicevo sopra, questo è un caso esemplare che dimostra come ammirazione e sdegno possano convivere davanti alla stessa vicenda. Tutto dipende, per usare le parole stesse di Pascal, du point de vue. Pio IX era convinto fosse suo sacro dovere allevare cristianamente chi, con il battesimo, era divenuto, ex opere Lo,Jerato, figlio della Chiesa. Ebrei, massoni e laici in genere consideravano invece una superstizione oscurantista – che poteva portare alle peggiori barbarie, come lo strappare un bambino alla sua famiglia – la convinzione cattolica che il battesimo provocasse una mutazione misteriosa ma reale nel battezzato.
Alle imprecazioni, agli insulti, alle minacce, alle proteste diplomatiche perché restituisse il settenne Edgardo ai genitori, il Papa rispondeva – e non poteva fare diversamente – «non possumus». Dall'altra parte si replicava col sarcasmo e con le beffe, oltre che con l'indignazione, per un convincimento così assurdo: un po' d'acqua e qualche parola pronunciate da una serva che determinavano il destino, temporale eterno, di una persona! Ma, andiamo nell'epoca del progresso, nel secolo della modernità ancora con queste fisime da Medio Evo!
Ebbene, nella loro prospettiva, questi accusatori non avevano torto. Né aveva torto Pio IX nella sua, di prospettiva. Il "punto di vista" che cambia tutto. Chi si occupa di apologetica non dovrebbe mai dimenticare l'avvertimento di Gesù, per il quale «non tutti capiscono queste parole, ma solo coloro cui è dato». Non banalizziamo la fede, aggredendo coloro che, non avendola, non possono comprenderne le conseguenze.
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Tanto per continuare a riflettere sulla storia della Chiesa e sulle istruzioni per l'uso per chi voglia comprendere e maneggiare quella storia. È essenziale, mi pare, un'avvertenza del cardinal Giacomo Biffi. La trascrivo dunque così come sta: «La Chiesa è un caso unico, sta a sé anche perché al tribunale della storia tutti gli altri protagonisti sono latitanti. O meglio, si è nella impossibilità di convocarli perché ormai irreperibili. I processi a loro carico sono tutti archiviati: i possibili imputati sono estinti. Sono tutti scomparsi, tranne la Chiesa, che è la sola viva, che è tuttora se stessa, che è ancora quella che ha attraversato due millenni di storia. È, dunque, il solo imputato al quale possa essere presentato il conto di tutte le epoche». Da qui, anche, l'accanimento. Con chi prendersela se tutti gli altri sono scomparsi? Ma proprio in questa unicità risiede il mistero di questa realtà che chiamiamo, appunto, "Chiesa".
IL TIMONE – N. 42 – ANNO VII – Aprile 2005 pag. 64- 65 – 66