Non si ha pace solo quando tacciono le armi. Ma quando verità, libertà, carità e giustizia sono rispettate. Riflessione sulla pace
La tragicità degli eventi che si svolgono davanti ai nostri occhi e riempiono di angoscia il nostro cuore ci hanno fatto prendere coscienza che nessuna protesta e nessuna manifestazione così come nessuna difesa isterica delle parti in causa aiutano a prendere una posizione autenticamente umana e responsabile.
Queste brevi note sono per suggerire a tutti, per quanto possibile, un atteggiamento umano e responsabile di fronte al problema della pace. È stato detto, molto opportunamente, che il Papa non è un pacifista, ma un pacificatore, cioè un costrutto re di pace ed un educatore alla pace.
Il Papa ha giocato nella vicenda della guerra una singolare idea di pace ed ha indicato con chiarezza e pazienza la via per una educazione ad essa e per la sua comunicazione agli uomini ed alla società tutta. È questa sua lezione che, colta in profondità, cerchiamo di riproporre a tutti.
La pace non è un valore assoluto della vita personale e sociale: è un valore soltanto in rapporto alla libertà, alla carità ed alla giustizia.
La pace non è evidentemente soltanto l’assenza di violenza nei rapporti. Nella sua storia l’umanità ha assistito, impotente e desolata, a momenti di assenza di guerra e di violenza che non erano affatto momenti di pace, perché era misconosciuta la vita degli uomini concreti, la loro dignità, la loro libertà: una assenza di violenza senza la libertà delle persone e dei popoli, senza il riconoscimento effettivo dei diritti personali e sociali, senza una giustizia che regoli adeguatamente l’intreccio dei diritti e dei doveri facendo nascere un ordine positivo della vita sociale: tutto questo non è mai stato e non sarà mai pace.
La pace non è che le armi tacciano (le armi possono parlare e, per certi aspetti debbono parlare, magari per difendere la libertà e la giustizia). Una pace senza libertà, carità e giustizia è la pace del campo di concentramento. Troppe paci in questo ultimo secolo hanno avuto l’immagine del campo di concentramento; non a caso il grande letterato russo Grossmann nello straordinario romanzo “Vita e Destino” afferma che il campo di concentramento è la cifra di comprensione più profonda dei totalitarismi ideologici del ventesimo secolo.
Dunque, perché ci sia la pace ci vuole la libertà: cioè il riconoscimento della irriducibilità della persona a qualsiasi altra realtà e la sua responsabilità di fronte a Dio e alla realtà.
Bisogna riconoscere il valore della persona umana (compreso il riconoscimento del valore della vita fisica); il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo: dalla libertà di coscienza alla libertà di professione religiosa e filosofica, alla libertà di associazione e di creazione etica e sociale.
La pace può vivere soltanto in una società che sia in qualche modo, ma realmente, creata dalla persona e dai popoli. La pace non è in una società che venga in qualche modo imposta da una struttura centrale che si consideri totalitaria.
Ma la libertà non può ovviamente essere intesa come espressione istintiva ed incondizionata del proprio potere intellettuale o affettivo. La libertà esige una effettiva responsabilità della verità.
La libertà trova la sua attuazione piena nella carità come accoglienza della persona dell’altro, nella sua irriducibile alterità, nella propria vita.
Nella carità la libertà si compie autenticamente e diventa l’energia costruttiva della società come convivenza di persone e di gruppi che vivono i loro valori e i loro impegni ideali nel rispetto attivo della vita delle altre persone.
Come è ricordato nel grande documento dell’inizio del cristianesimo, la Lettera a Diogneto: “avevano una capacità di rispetto ignota a tutti”. Così libertà e carità introducono e rendono possibile l’esperienza della giustizia: come regolazione dei diritti propri con i doveri verso gli altri, regolazione di diritti e doveri che tocca come compito alle istituzioni che, ai vari livelli, regolamentano la vita sociale.
Giustizia c’è dove i diritti del singolo vengono attivamente complementati dai doveri verso i diritti degli altri e dove la società si forma nell’esercizio vero dei diritti fondamentali della persona e del popolo, di cui quello di sussidiarietà e di solidarietà assumono un ruolo imponente.
Così tende a configurarsi (come è accaduto non poche volte nella vita sociale: quanto più la tradizione cristiana è stata presente) una vita sociale libera e giusta. Il riverbero etico e sociale di tale libertà e di tale giustizia si chiama pace.
Se per difendere questa libertà e questa giustizia fosse necessario andare in guerra, allora questa può essere giusta.
ANDREA GIANELLI – ANDREA TORNIELLI
Papi e guerra. Il ruolo dei pontefici dal primo conflitto mondiale in Iraq, Il Giornale. Biblioteca storica, Milano 2003.
Quale origine ha l’offensiva di pace di Giovanni Paolo II, testimone sopravvissuto agli orrori del nazismo e del comunismo? Come si inserisce nel tradizionale insegnamento della Chiesa sulla guerra?
Questo libro, nato dalla collaborazione tra Andrea Granelli, giovane studioso di storia, e Andrea Tornelli, vaticanista del quotidiano Il Giornale, ripercorre l’azione dei Papi in tempo di guerra, dai grandi conflitti mondiali fino all’attacco all’Iraq del marzo 2003. Dalla “Nota di pace” di Benedetto XV ai messaggi lanciati da Pio XII alla vigilia della seconda guerra mondiale e poi durante il conflitto di Corea; dal ruolo di Giovanni XXIII durante la crisi dei missili di Cuba agli interventi di Paolo VI sul Vietnam, per arrivare alle guerre più recenti avvenute sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Attraverso l’analisi degli interventi papali, riproposti nei rispettivi contesti storici, il libro evidenzia le linee guida, le costanti ma anche lo sviluppo di questo singolare “magistero di pace” dei Pontefici del Novecento.
IL TIMONE N. 25 – ANNO V – Maggio/Giugno 2003 – pag. 10 – 11