15.12.2024

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Quante bugie sulla Resistenza
31 Gennaio 2014

Quante bugie sulla Resistenza

 

 


La guerra colpì molti civili di «città» e di «campagna». I primi colpiti soprattutto dai bombardamenti alleati, i secondi soggetti alla violenza dei partigiani, specialmente comunisti. Ma di questo pochi hanno il coraggio di parlare. Lo fa Giampaolo Pansa, giornalista e studioso della Resistenza


 

Giampaolo Pansa ha una quindicina di titoli all’attivosulla seconda guerra mondiale e la Resistenza: una nuova puntata del suo viaggio uscirà per Rizzoli verso la fine dell’anno.
Con lui parliamo di quel “protagonista” a cui ha dedicato una speciale attenzione, anche nel romanzo I tre inverni della Paura, ovvero i civili, la popolazione. Quella popolazione che la letteratura antifascista unisce con un trattino alla parola Resistenza.

La Resistenza fu un fenomeno di popolo oppure no?
«Nel 1947 uscì un libro pubblicato dalla Mondadori, scritto da un intellettuale napoletano ma firmato da Luigi Longo, cioè da un’autorità assoluta: il comandante di tutte le brigate d’assalto Garibaldi e che sarebbe diventato il segretario del partito comunista dopo la morte di Togliatti. Il titolo era Un popolo alla macchia. Un libro pieno di balle, la prima delle quali stava, appunto, nel titolo: che lasciava intendere come sotto l’occupazione tedesca, a parte quei pochi fascisti che si erano accodati ai tedeschi, la gran parte del popolo italiano dopo l’8 settembre del ’43 fosse corso nelle file della Resistenza. Non è assolutamente vero. Quella che io chiamo la guerra civile venne combattuta da due piccole minoranze: una un po’ più grande, quella dei giovani che si erano arruolati con la Repubblica Sociale o che avevano deciso di rispondere ai bandi di leva nel novembre del ’43 e del febbraio del ’44, per poi finire nelle famose quattro divisioni di Graziani. Giovani delle classi dal ’20 al ’25. L’altra minoranza, un po’ più piccola, era quella dei partigiani. Parliamo dei partigiani veri, non quelli che sono emersi alla 25esima ora nelle grandi città del nord. Poi c’erano i tedeschi che facevano la loro guerra e hanno resistito a lungo, arretrando lentamente fino alla famosa linea gotica, rimasta in piedi fino alla conclusione del conflitto. I civili erano come un vaso di coccio tra due, anzi tre vasi di ferro: i tedeschi, i fascisti della Repubblica sociale e i partigiani».

La zona grigia di cui ha parlato De Felice?
«Sì, che però è fondamentale distinguere in due parti per capire bene ciò che è avvenuto: i civili di città e quelli di campagna».

Cosa succedeva in città?
«Lì si aveva soprattutto paura dei bombardamenti alleati, un tema che viene spesso dimenticato e che spero di mettere in luce bene nel mio prossimo libro. I bombardamenti degli anglo-americani hanno fatto molti più morti che le rappresaglie tedesche. Ho dei ricordi personali, perché sono del ’35 ed ero anch’io un piccolo civile di città. Abitavo a Casale Monferrato, che sta sul Po, e c’erano due ponti che collegavano la prima periferia col centro: un ponte pedonale e uno ferroviario. Ricordo gli aerei alleati che ci sorvolavano. Io dissi: “Mamma ci bombardano…” e lei mi rassicurò: “No, gli inglesi non ci bombardano perché sono amici della marchesa Dalla Valle di Pomaro”, che stava nel palazzo accanto al nostro. Io ribattei: “Guarda che ti sbagli, non sono inglesi, sono americani….” E lei: “Come fai a dire che sono americani?”. È perché leggevo i settimanali e sapevo che erano aerei americani: avevano una stella bianca. Infatti hanno centrato il ponte pedonale subito, quello ferroviario non l’hanno mai preso, l’hanno un po’ diroccato verso la fine della guerra. Insomma, avevamo paura delle bombe. Ci sono molte città italiane che sono state distrutte dalle bombe degli alleati. Gli inglesi soprattutto, con il commando dei bombardieri guidato dal maresciallo Harris, chiamato “il macellaio”, avevano capito che il bombardamento terroristico era un fattore decisivo per vincere la guerra, perché fiaccava l’animo dei civili, distruggendo le fabbriche, le case, tutto».

Viene in mente il bombardamento di Treviso nel ’44, che fece, mi pare, duemila morti.
«Certo, anche se secondo me i morti furono un po’ meno, sui 1500. Comunque, conta che questo è avvenuto il 7 aprile, lo stesso giorno in cui i tedeschi hanno fatto il rastrellamento della Benedicta e hanno fucilato 147 giovani, che più che partigiani erano dei renitenti che aspettavano di essere armati. 147 ragazzi ammazzati sono un mucchio enorme di morti, ma quel solo bombardamento di Treviso ne ha fatti 10 volte di più».
Torniamo ai civili, quelli di campagna però. «Loro non avevano paura delle bombe, ma delle rappresaglie tedesche. Funzionava così: i partigiani facevano un colpo, ammazzavano magari un maresciallo tedesco, dopo di che tagliavano la corda e arrivavano i tedeschi che mettevano in pratica la regola che aveva imposto Kesselring, comandante del fronte italiano: un tedesco ucciso, dieci italiani fucilati. I civili di campagna, rispetto a quelli di città, avevano però un vantaggio: mangiavano sempre e alimentavano il mercato nero. Molti contadini, non soltanto quelli proprietari, ma anche i fattori o i mezzadri, si sono arricchiti col mercato nero vendendo olio, riso, farina, grano, salumi, carne e tutto quello che era possibile spacciare.
Da questo punto di vista dovevano temere soltanto un’altra cosa: le razzie dei partigiani».

Razzie per necessità o come forma di taglieggiamento?
«Quando le formazioni partigiane erano ancora di dimensioni ridotte si alimentavano spesso pagando il cibo che si facevano consegnare dai contadini, seppur con dei buoni. Una volta ingrandite, si alimentavano andando a prendere la roba dei contadini e dicendo “poi ti pagherò”. Davano buoni con il timbro del comandante di un distaccamento o di una brigata, massimo di una divisione, dove c’era scritto “buono per la requisizione di viveri per il valore di x”. E i contadini erano costretti a consegnare la merce, perché i partigiani avevano in mano le armi. La storia è diventata quasi drammatica nell’inverno ’44-’45.
Molte formazioni si erano sbandate sotto i rastrellamenti oppure avevano fatto quello che è avvenuto in Piemonte, ma anche altrove, e che a posteriori è stata definita una strategia: la “pianurizzazione”, il trasferimento dalla montagna in pianura. In Piemonte è avvenuto in modo massiccio. Nelle Langhe già c’erano i partigiani, quelli autonomi di Mauri, che però con i civili si comportavano esattamente come i partigiani comunisti. Nel Monferrato sono arrivate moltissime di queste piccole unità nate dallo smembramento delle grandi formazioni.
Per sopravvivere all’inverno razziavano. Mio zio era il fattore di una grossa azienda agricola ed era un grande cacciatore. Ricordo che quando andammo a celebrare il Natale da lui, a una decina di chilometri da Casale, mi fece vedere il suo armadio segreto, chiuso a chiave con due lucchetti, doveva aveva dei fucili incredibili. E mi disse: “Se arrivano qua e pretendono quello che non posso dargli, gli sparo”. C’era insomma il problema dei partigiani sbandati e quello dei partigiani delinquenti, rapinatori, che entravano nella cascine, sfondavano le porte, rubavano quel che c’era da rubare, cercavano di violentare le donne. Ed era molto difficile distinguere tra le due tipologie».

E l’immagine del contadino che aiuta il partigiano, presente in tanta letteratura antifascista o partigiana…?
«È in gran parte inventata. Poteva valere per certe zone d’Italia. In Romagna, per esempio, dove c’era una cultura politica che veniva dai braccianti, che veniva dalle leghe, ecc. ma in molte zone non c’è stato questo fenomeno».

In cosa sperava allora la gran parte dei civili?
«Che la guerra finisse presto, perché così sarebbe finito un mattatoio dove la gente crepava e poteva essere ammazzata dall’una e dall’altra parte. Era, quella popolazione stretta tra i tedeschi e le due minoranze in lotta, una grande forza politica impotente e in potenza. Quella che poi avrebbe dato i voti alla Democrazia Cristiana».

 

 

 

Dossier: Resistenza: la guerra civile

 

IL TIMONE N. 95 – ANNO X II – Luglio/Agosto 2010 – pag. 42 – 43

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