Un genocidio al quale resistere
Ed è esattamente ciò che è accaduto qualche settimana fa, quando nel pieno della campagna elettorale per le elezioni italiane, il magistrato francese Jean Marie Le Mené ha ribadito a chiare lettere che votare un politico anti-vita significa diventare complici degli omicidi legalizzati che esso vuole realizzare. Le Mené è personaggio autorevolissimo: consigliere di stato in Francia, membro della Pontificia Accademia per la Vita e Presidente della Fondazione “Jérôme Lejeune”, intitolata al grande genetista transalpino che dedicò tutta la sua vita alla difesa dell’uomo concepito. Il magistrato francese – intervenendo in Vaticano come relatore al Congresso Internazionale “L’embrione umano nella fase del preimpianto” – ha avuto il merito di irrompere nel dibattito politico richiamando alcune verità scomode ma incontestabili. La prima: esiste un genocidio pianificato che colpisce ogni anno milioni di esseri umani concepiti, attraverso l’aborto chirurgico, le pillole abortive, la fecondazione artificiale e ogni altra pratica che mira all’eliminazione diretta e programmata dell’embrione.
Di fronte a questo genocidio – ha detto Le Mené – abbiamo il dovere di organizzare una vera e propria resistenza, che si attua innanzitutto nella cabina elettorale: «Votare a favore di un candidato le cui convinzioni non sono rispettose dell’embrione – ha detto lo studioso francese – costituisce una complicità con l’omicidio di quest’embrione, e quindi una grave mancanza di carità». Le Mené è andato oltre: i politici cristiani – ha ricordato – non devono limitarsi a «non far niente», a essere passivi sull’argomento, cioè a evitare di promuovere leggi ingiuste. Hanno invece il preciso dovere di assumere iniziative legislative per la tutela dell’uomo concepito, anche nella fase che precede il suo impianto (o annidamento) nell’utero materno.
Il ruolo della Chiesa locale
Terzo concetto richiamato nella relazione del magistrato francese: il ruolo della Chiesa in questa difficile azione di salvataggio. Secondo Le Mené occorrerebbe «creare in ogni diocesi una struttura strategica specializzata nel rispetto della vita, distinta dalla cura pastorale per la famiglia, composta di esperti convinti dell’umanità e della personalità dell’embrione», in modo da diffondere «una resistenza attiva al genocidio programmato dell’embrione nella fase del preimpianto, anticamera della clonazione umana». Il Presidente della Fondazione Lejeune non lo dice apertamente, ma lo si può leggere fra le righe: occorre smuovere l’azione pastorale di alcune diocesi, tirandola fuori dalle acque chete del conformismo e lanciandola con coraggio sui sentieri meno rassicuranti della difesa della vita umana minacciata.
Ma nella comunità cristiana tutti i cattolici sono pronti a questa mobilitazione? Le Mené coltiva qualche legittimo dubbio, e allora ecco che cosa propone: «Imporre a tutti coloro che hanno una funzione di insegnamento o una responsabilità pastorale nella Chiesa, anche a livello parrocchiale, il dovere di esprimersi sistematicamente prima di ogni consultazione elettorale, ed almeno una volta all’anno, sui temi della vita». Una grande mobilitazione delle strutture di base della Chiesa cattolica, dunque, quella auspicata dall’autorevole membro della Pontificia Accademia della Vita. Perché soltanto il cattolico «modello struzzo» potrebbe ignorare la rottura che oggi esiste fra la limpida e coraggiosa parola del Magistero della Chiesa e la adesione a questo stesso magistero da parte di alcune fette della comunità
cattolica nel mondo. È arrivato il momento di fare chiarezza, di rimboccarsi le maniche e di agire. Partendo da una sana ortodossia sull’argomento: l’aborto è un omicidio.
Le parole sono pietre
Di fronte alla crudezza di una simile affermazione le coscienze sono costrette a rivelare ciò che nascondono. Lo dimostrano le reazioni scomposte che hanno accolto l’intervento di Le Mené. Quelle stillanti odio anticattolico di alcuni abituali nemici della Chiesa. Ma penso anche alle reazioni – imbarazzate – di qualche politico cattolico che ha così commentato l’intervento dello studioso francese: «Nella sostanza ci sono affermazioni giuste e condivisibili, il tono però è così contundente che non facilita la comprensione del valore della vita». Davvero? Per capire se questa critica è veritiera, siamo andati a rileggerci l’Evangelium vitae, l’enciclica di Giovanni Paolo II sul tema della vita minacciata. E abbiamo trovato questi “toni”: «Fra tutti i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile» (EV, n. 58). E poiché nella coscienza di molti «la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi» il Papa proclama che «occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno… La gravità morale dell’aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio… Chi viene soppresso è quanto di più innocente si possa immaginare» (EV, n. 58). Che dire: forse Giovanni Paolo II con questi toni non ci ha aiutato “nella comprensione del valore della vita”?
La tentazione del conformismo
Perché le parole di Le Mené hanno suscitato così tanto scalpore? Per una ragione molto semplice: stiamo progressivamente perdendo di vista la sostanziale identità che esiste fra un uomo concepito e un essere umano adulto. E, dunque, fra l’uccisione di un embrione di poche cellule e di un uomo di quarant’anni. Come tipici prodotti della mentalità contemporanea, preferiamo smorzare i toni, assumere un atteggiamento più conciliante e compromissorio con il pensiero dominante. Magari continuiamo a percepire che l’aborto è una cosa sbagliata, ma non siamo disposti a trarre le estreme conseguenze. E cioè a pensare e testimoniare che, se il concepito è un uomo come noi, allora la sua eliminazione equivale oggettivamente a un omicidio. È un’affermazione drammatica, tremenda, che ci mette in rotta di collisione con il mondo in cui viviamo: ci compromette, incrina amicizie consolidate, rapporti di lavoro, alleanze politiche. Ci trasforma in segni di contraddizione, e noi non abbiamo più la forza né la voglia di continuare a esserlo. Finendo così come quel sale insipido di cui parla il Vangelo: buono solo a essere gettato in terra e calpestato come cosa inutile.
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 14 – 15
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