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12.12.2024

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Quel Primato riconosciuto
31 Gennaio 2014

Quel Primato riconosciuto

 

 

 
 
Nell’antichità, il vescovo della Chiesa di Roma era riconosciuto capo della Chiesa anche dalle autorità politiche dell’impero romano. Una ulteriore conferma del ruolo unico ricoperto dal successore di Pietro.
 
 
 
 
Nel periodo della clandestinità, quando la Chiesa, incoraggiata in un certo senso dal conquirendi non sunt di Traiano (Plinio, Ep. X, 97), dal divieto cioè dell’imperatore di cercare i Cristiani, che potevano essere incriminati e processati solo su accuse non anonime, faceva le sue riunioni al riparo della proprietà privata, lo Stato romano sembra non conoscere l’organizzazione gerarchica dei Cristiani, anche se una strana confusione fra Cristo e Pietro nell’attribuzione di una profezia citata da Flegone di Tralles, liberto e portavoce letterario dell’imperatore Adriano, mostra che il nome e l’importanza del capo degli Apostoli erano noti ai pagani.
Ma quando la Chiesa, alla fine del regno di Marco Aurelio o nei primi anni di Commodo, uscì dalla clandestinità, rivendicando la proprietà dei luoghi di culto e di sepoltura, la sua struttura gerarchica, con i vescovi, i presbiteri, i diaconi, cominciò ad essere ben nota e divenne chiara ai pagani la preminenza del vescovo di Roma. Fedele alla mentalità romana secondo cui, dove c’era una moltitudine doveva esserci chi la governava (come ricorda Livio 39,15,11), la classe dirigente della fine del II secolo e degli inizi del III, del periodo cioè della tolleranza di fatto, non sentì un pericolo nell’organizzazione gerarchica della Chiesa, che rendeva possibile allo Stato trattare con dei responsabili, ma nella clandestinità, che i Cristiani, peraltro, non avevano voluto, e che li sottraeva ad ogni controllo.
Organizzati in modo analogo ai collegia religionis causa, per i quali non era necessaria nessuna autorizzazione preventiva, i Cristiani poterono così trattare, attraverso i loro capi, direttamente con l’impero: così Ippolito (Philos. IX,12) ricorda che papa Vittore ottenne da Commodo, tramite l’intercessione di Marcia, la grazia per i Cristiani deportati in Sardegna; così Alessandro Severo attribuì alla Chiesa di Roma (Storia Augusta, Vita Alex. 49,6) un’area contesa ad essa dal collegio dei popinarii (tavernieri); così il legato d’Arabia, sotto Caracalla, per ottenere la venuta presso di sé di Origene, allora molto celebre, chiese il permesso al prefetto di Egitto e al vescovo di Alessandria.
Quando, al termine della lunga tolleranza di fatto, Decio volle riprendere l’iniziativa della persecuzione, il primo ad essere colpito fra i Cristiani fu il vescovo di Roma, Fabiano, nel gennaio del 250: Cipriano (Ep. 55), vescovo di Cartagine, ci informa che lo stesso Decio impedì la rielezione del suo successore fino al 251, perché temeva di più un vescovo a Roma che un pretendente nell’impero.
La piena conoscenza dell’organizzazione ecclesiastica emerge con chiarezza dagli editti di Valeriano nella grande persecuzione degli anni 257-260, cosicché, quando Gallieno, nel 260, volle porre fine ad essa, non si limitò più alla tolleranza di fatto, ma dette alla Chiesa come istituzione un pieno riconoscimento giuridico, restituendole i luoghi di culto e di sepoltura precedentemente confiscati: se l’editto generale di Gallieno è per noi perduto, abbiamo però il rescritto con cui egli scrisse personalmente al vescovo di Alessandria, Dionigi, nel 262, per estendere anche all’Egitto, rimasto fino ad allora sotto un usurpatore, le concessioni già fatte nel resto dell’impero (Eusebio, Storia ecclesiastica, VII, 13). Sul riconoscimento della Chiesa con la sua struttura gerarchica da parte di Gallieno è fondato l’arbitrato di Aureliano del 272 (Eusebio, ibid., VII, 30,19), che io ritengo particolarmente importante per la conoscenza del primato del vescovo di Roma da parte dei pagani prima di Costantino: nella secessione di Zenobia regina di Palmira, a cui Aureliano pose fine, la “casa della Chiesa di Antiochia” era stata occupata dal vescovo Paolo di Samosata, già condannato da un sinodo asiatico, sia per l’eresia della sua dottrina, sia perché era stato ducenarius al servizio della regina. Quando Aureliano entrò in Antiochia, i Cristiani gli chiesero, a nome del sinodo, di far sgombrare Paolo e di restituire al vescovo legittimo, Domno, la “casa della Chiesa” di Antiochia. Aureliano rispose che la “casa” doveva essere data a coloro ai quali “i vescovi di Roma e di Italia epistelloien”.
L’espressione è stata intesa in vari modi: secondo alcuni essa significa “a coloro che erano riconosciuti dai vescovi di Roma e d’Italia”; secondo altri “a coloro a cui l’avevano assegnata i vescovi di Roma e d’Italia”; secondo altri ancora “a coloro che erano designati dai vescovi di Roma e d’Italia”. Chi dà la seconda e la terza interpretazione intende che la scelta doveva essere affidata a vescovi lontani e, quindi, imparziali: ma, a parte il fatto che questa ricerca di imparzialità sembrerebbe fuori luogo da parte di Aureliano, per il quale Paolo di Samosata, partigiano di Zenobia, era un ribelle, e che doveva perciò vedere con favore la richiesta del sinodo asiatico, il significato di epistellein come “essere in comunicazione per iscritto” e, quindi, “essere in comunione”, è confermato dalla stessa lettera sinodale riportata da Eusebio, nella quale, dopo aver deposto Paolo ed eletto Domno, si invitavano il vescovo di Roma e quello di Alessandria a scrivere a lui e a ricevere da lui lettere di comunione e si aggiungeva: “in quanto a Paolo epistèlleto (“scriva”) ad Artemone (alla cui eresia egli si era avvicinato) e quelli che la pensano come Artemone siano in comunione con lui”.
Rinviando la decisione sulla Chiesa di Antiochia al vescovo di Roma, Aureliano prendeva atto dunque della struttura della Chiesa come era stata riconosciuta nel 260 da Gallieno: da buon romano preferiva attenersi al diritto riconosciuto da Roma più che alla convenienza immediata che doveva suggerirgli l’adesione senza rinvii alla richiesta del sinodo asiatico.
L’importanza preminente del vescovo di Roma, che già Cipriano definisce “primato”, appare del resto confermata da un’ironica espressione con cui Tertulliano, ormai montanista, definisce polemicamente tale vescovo: pontifex scilicet maximus, quod est episcopus episcoporum, applicando il termine pagano di “pontefice massimo” al concetto cristiano di “vescovo dei vescovi” (De Pudicizia 1,27).
La pretesa che Tertulliano coglie polemicamente nel vescovo di Roma rivela da parte di quest’ultimo la piena consapevolezza della sua funzione.

 

Bibiografia

 

Marta Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 321 sgg.;
M. Sordi, I Cristiani e l’impero Romano, Milano 2004 passim.

 

 

IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 26-27

 

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