La contraddizione di Habermas
Tra le molte riflessioni di Habermas mi sembra particolarmente apprezzabile l’idea che la filosofia debba prendere sul serio il fenomeno della persistenza della religione in una società secolarizzata. Prendere sul serio questo fenomeno significa affrontare il discorso religioso non trattandolo come un fatto privato, ma confrontandosi con una ragione che riflettendo «sulle proprie radici più profonde si scopre originata da un’istanza altra, della quale è costretta a riconoscere il fatale potere […]».
Accogliere una ragione che si trova e si interroga sul proprio fondamento significa infatti riconoscere la rilevanza culturale e quindi la dignità pubblica del discorso su Dio, quella «istanza altra» che è all’origine della ragione.
Contemporaneamente, però, bisogna sottolineare la contraddizione in cui Habermas cade quando sostiene, sulla linea proceduralista kantiana, che «la natura secolare dello Stato costituzionale democratico non presenta alcuna debolezza […] che comprometta un’autostabilizzazione nell’aspetto cognitivo o motivazionale». In altri termini, secondo Habermas lo Stato laico, nato da una cultura secolarizzata, è in grado di autofondarsi e di legittimare i propri valori di riferimento attraverso le procedure costituzionali: in questo Stato la legge non è tale perché prescrive un comportamento conforme al bene oggettivo, ma è «bene» ciò che è prescritto dalla legge.
Il fondamento etico di uno Stato deve essere la legge naturale In merito a questo punto bisogna notare che:
1. Nessuna procedura può produrre per sua virtù la verità ed il bene; la verità e il bene vengono prima della legge umana e sono espressione della natura e del valore dell’essere delle cose. Anche nel caso della democrazia il consenso non produce i valori, esso piuttosto dovrebbe essere esercitato solo a partire dai fondamenti etici senza i quali non può esistere un ordinamento di diritto.
2. L’idea che i valori siano posti da procedure è strettamente connessa all’idea che la ragione non possa conoscere il diritto naturale e che pertanto il diritto sia posto dall’uomo.
Pur riconoscendo che lo Stato liberale nasce e vive in una società in cui i vincoli di solidarietà civile si nutrono delle tradizioni religiose e della cultura schiettamente metafisica plasmata dal cristianesimo, Habermas non attribuisce la crisi dei legami e della solidarietà nello Stato democratico al venir meno dei valori naturali e cristiani, ma alla «modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso».
Ratzinger: la ragione è capace di verità
Nella sua relazione il cardinal Ratzinger attribuisce il venir meno della nozione di diritto naturale alla frattura culturale che si produce all’interno della coscienza europea a partire dalla modernità. Il mondo cattolico, che ha vissuto il dramma della divisione e dello scisma, cerca da subito il dialogo con le società secolarizzate e con le comunità di diversa fede riferendosi al diritto naturale in nome della ragione comune. Purtroppo però questo richiamo si rivela a lungo inefficace perché presuppone una nozione di ragione e di natura non più condivisa. La ragione di cui parla il Magistero è una proprietà che l’uomo possiede per natura in virtù della struttura del suo essere, che gli consente di conoscere la verità delle cose. Per la cultura secolarizzata, sia nella versione razionalista che in quella empirista e positivista, la ragione non può conoscere la verità dell’essere e quindi il diritto naturale non è accessibile.
Quale strada percorrere per superare gli ostacoli che sembrano precludere la possibilità stessa di un linguaggio comune? Il cardinal Ratzinger propone a tutte le culture di confrontarsi con i diritti umani, ultimo elemento del diritto naturale, «incomprensibili senza presupporre che l’uomo in quanto tale sia soggetto di diritti».
La strada allora indicata dal cardinal Ratzinger è oggi ribadita da papa Benedetto XVI, perché l’individuazione di nozioni e valori condivisi è sempre più urgente. L’alternativa al confronto serio, riflessivo e aperto (intendendo con apertura non la disponibilità a rinunciare alla propria identità, ma l’ascolto animato dalla volontà di trovare ciò che è comune e non ciò che divide) è lo scontro di civiltà descritto da Samuel Huntington. E lo scontro deve essere evitato a meno che non sia reso necessario dalla difesa dei diritti fondamentali.
Deve essere evitato non solo perché in generale la pace è preferibile al conflitto, ma soprattutto perché l’unico modo che ha la verità di «vincere» è di essere accettata, di ottenere riconoscimento e consenso.
BIBLIOGRAFIA
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl