Circa un anno fa la CEI pubblicava il nuovo “Repertorio nazionale dei canti per la liturgia” che veniva in luce dopo quello del 2000, a sua volta succeduto alla prima esperienza in tal senso del 1979.
Il lasso di tempo coperto dalle tre pubblicazioni coincide sintomaticamente con un periodo di profonda crisi della liturgia – non solo in Italia – e con una fase di confusione generale nel campo della musica destinata al servizio liturgico che, pur avendo dei precedenti storici similari, si caratterizza ai nostri giorni per alcune peculiarità e pertanto offre spunto per qualche riflessione. Una domanda si pone, anzitutto: quale utilità ha oggi il “Repertorio”?
Qualche amico – giustamente – osserva: almeno vengono tenuti fuori tutti i canti dei Movimenti e simili, che poco o nulla hanno a che fare con la liturgia. Questo è vero, ma sarà possibile che in quelle parrocchie ove tali aggregazioni hanno appoggio, sede, ospitalità, siano aboliti o proscritti simili repertori? Impossibile. Che dire poi delle comunità religiose che a vario titolo conservano loro repertori, a volte ormai disancorati da ogni tradizione liturgica, soprattutto dove, sotto gli alquanto equivoci “ombrelli” della pastorale o della animazione giovanile, gran parte dei canti – nei testi e nella musica – viene mutuato da fonti extra-liturgiche? Idem. L’ingravescente situazione degli ultimi anni avrebbe dovuto far meditare su un punto essenziale: l’utilità di un repertorio, rigido o liberal che sia, è completamente frustrata dalla diffusa assenza di sensibilità morale e/o giuridica per il rispetto della liturgia della Chiesa, sia nei laici, sia nel clero, e non svelo alcun mistero dicendo che per molti che operano nel settore è familiare l’idea di una liturgia quale spazio vuoto da riempire ad ogni costo (di che cosa poi, è affare secondario).
Qualcuno dei già citati amici rimpiange, di domenica, la vecchia Messa letta!
Il tanto deprecato “rubricismo” che si volle combattere negli anni Sessanta e Settanta, considerandolo uno spiacevole relitto di tardo-tridentinismo liturgico, non ha fatto posto ad una coscienza di ossequio della unitarietà e peculiarità del culto pubblico cattolico che deve rendersi secondo le norme dettate dalla Chiesa, ovvero secondo i desideri di Dio che deve essere adorato (anche nella musica) come Lui stesso ha stabilito.
Innanzi alla creatività, elevata a quintessenza delle deviate interpretazioni della riforma liturgica, ogni repertorio cadrà sotto il “Vietato vietare” che i figli di oggi hanno assimilato dai padri sessantottini.
Basta ripercorrere un po’ di storia della musica liturgica per accorgersi che la normativa ecclesiastica, in materia, risulta efficace quando è preceduta dallo sviluppo di un pensiero, corroborato da una azione lunga e tenace. Porterò un solo esempio. Le riforme di S. Pio X, intervenute nel decennio 1903-1914, avevano alle spalle circa ottant’anni di studi e diffusione della prassi gregoriana riformata dal monastero di Solesmes; avevano anche un retroterra estetico ceciliano di quasi un secolo tra Germania, Austria ed Italia; avevano a fianco studi e movimenti che interessavano i vari riti latini e travalicavano i confini dei Paesi tradizionalmente cattolici e poterono così garantire la formazione di quella koinè liturgico-musicale (affossata negli ultimi 35 anni) la quale riprese in maniera “alta” e diffusa l’eredità del Medioevo cristiano, i giusti ridimensionamenti tridentini degli eccessi poetici e polifonici rinascimentali, i corretti sviluppi della prassi strumentale (soprattutto organistica) del Sei-Settecento. Ma aveva soprattutto dalla sua parte la (allora) tradizionale obbedienza del clero alle norme liturgiche, sebbene in materia musicale tale sentimento di ottemperanza nei secoli fosse stato messo a repentaglio da vari gallicanesimi rituali e mode più o meno transeunti, cui la Chiesa mai aveva cessato di opporsi.
È vero, anche in passato tentativi come il “Repertorio” sono stati fatti, pure dagli stessi ceciliani tedeschi e poi italiani, ma il risultato non era stato efficace: in un’epoca in cui il rubricismo era la norma, era pur necessario discutere, dibattere, insegnare, diffondere una sensibilità.
Oggi mancano tutte queste cose, ma ancor prima difetta l’obbedienza ad un Magistero che – ancorché temperato negli ultimi decenni – pure esiste ed in forma costante ed autorevole. Forse bisogna previamente ricollocare al suo posto la “norma liturgica” che, se promana dal Magistero, per i cattolici deve essere considerata applicazione diretta della lex divina e come tale rispettata.
Fintanto che non si diffonda questo pensiero, si potranno pubblicare decine di Repertori, ma il risultato sarà sempre uguale: come quello di chi, trovato un ferito per strada, invece di soccorrerlo opportunamente, si limiti pietosamente a pettinarlo.