Il documento del CNB
Il CNB si è pronunciato sulla delicata questione rispondendo all’Istituto Nazionale Neurologico Carlo Besta, che propone una sperimentazione su pazienti affetti dalla Corea di Huntigton, patologia molto grave per la quale a oggi non esiste una cura. L’idea è quella di sostituire neuroni degenerati a causa della malattia con neuroni provenienti da feti umani. Per l’Italia verrebbero utilizzati i tessuti dei nascituri abortiti volontariamente presso la Clinica Mangiagalli di Milano. Aborti – spiega il CNB – ottenuti mediante il diffuso metodo Karman. In questa procedura il piccolo essere umano è ucciso da una cannula con cui viene smembrato e aspirato. Successivamente, il medico aborzionista verifica che nel corpo della madre non siano rimasti dei brandelli della vittima.
Il CNB sospende qualsiasi giudizio sull’atto abortivo in sé, omettendo «ogni riferimento diretto a tale lacerante e drammatica questione bioetica». Ammette per altro che l’uso di feti abortiti solleva «alcune gravi perplessità in ordine al rischio che possano costituire un incentivo all’aborto», ma alla fine assume questa posizione:
a. in linea di principio non ci sono obiezioni a usare per la sperimentazione feti abortiti volontariamente;
b. occorre però impedire che questo uso diventi un incentivo all’aborto, evitando che la donna abortisca per fornire materiale da laboratorio, o che ne ricavi un qualsiasi vantaggio;
c. garantita questa condizione, cade qualsiasi obiezione morale.
Ci si può ritenere soddisfatti di questa posizione? Personalmente ritengo di no, e cercherò di spiegare il perché.
Le contraddizioni del documento
Esiste una differenza fra l’uso di feti abortiti volontariamente e spontaneamente? Se l’unico vincolo morale è l’assenza di un legame fra aborto e sperimentazione, se ne deve concludere che non vi è una differenza sostanziale. Ma lo stesso CNB si contraddice quando afferma, testuale, che «in ogni caso è sempre preferibile ricorrere a materiale fetale proveniente da aborto spontaneo piuttosto che da interruzione volontaria della gravidanza». Perché? Mi sembra di cogliere qui un’implicita ammissione: nell’uso delle vittime dell’aborto volontario c’è qualche cosa di gravemente problematico in sé. Il CNB, come per la verità anche alcuni teologi moralisti cattolici, punta tutta la sua attenzione sul problema dell’indipendenza tra aborto e ricerca scientifica. Si tratta di un argomento importante. Ma già a questo livello le obiezioni sono numerose. Ammesso (e non concesso) che sia possibile tenere distinta l’azione dell’ospedale che fa aborti da quella del laboratorio che conduce la sperimentazione, rimane il fatto che, da oggi, tutte le donne sapranno che abortendo possono destinare ciò che rimane del loro figlio alla ricerca scientifica. Si indeboliscono così le residue, modeste remore morali che possono opporsi all’aborto. Che è legalizzato, è proposto alla collettività come fatto lecito. Dunque, la decisione del CNB consolida sul piano culturale e giuridico la “normalità” dell’aborto. Inoltre, si alimenta l’idea che la generosità della coppia (che ha voluto l’aborto) può trarre da questo male un bene, permettendo alla scienza di progredire, usando i resti del figlio dissezionato. Si crea il presupposto per un meccanismo assolutorio di stampo scientista per chi abortisce: “non nascerà, ma almeno servirà a guarire gli ammalati”. L’ennesimo esempio di filantropia pelosa che in bioetica serve a giustificare le peggiori azioni, come uccidere embrioni per curare l’Alzhaimer, o far nascere un bambino anencefalico soltanto allo scopo di donare i suoi organi.
Il CNB impone che il consenso all’uso dei resti dell’aborto volontario sia chiesto alla donna soltanto dopo che l’intervento sia stato praticato. Ma è un rimedio assai blando, che ci introduce alla seconda, più robusta obiezione.
Si possono donare gli organi della propria vittima?
È noto che un genitore può decidere la donazione degli organi del figlio morto in tenera età, a scopo di trapianto. Dietro l’apparente similitudine, nel caso in esame c’è una differenza fondamentale: nell’aborto volontario, infatti, il genitore è colui che ha determinato la morte del figlio. Si può affermare che egli sia nelle condizioni di decidere dell’uso della sua vittima? Facciamo un esempio: una madre, in un momento di follia, si rende colpevole di un infanticidio. Rientrata in sé, dispone per la donazione degli organi del figlio: riterremo legittima e vincolante questa decisione? Penso proprio di no. Eppure, se applicassimo i criteri del CNB, dovremmo concludere che un bambino morto di morte naturale, e un altro ucciso dalla madre, sul piano della ricerca scientifica sono la stessa cosa.
Ma non è così. Allora, si tratta di risalire con coraggio alla grave ingiustizia dell’atto abortivo, valutazione che non a caso il CNB preferisce pilatescamente omettere. Poiché l’aborto è atto oggettivamente omicida, non vi è ragione al mondo che autorizzi chi ne è responsabile a disporre, mediante consenso, del “corpo” della sua vittima. Il CNB ha di fatto autorizzato una sorta di donazione di organi con il consenso di colei che ha decretato la morte del “donatore”.
Che cosa dice la Chiesa
L’istruzione “Donum vitae” ricorda che “i cadaveri di embrioni o di feti umani, volontariamente abortiti o no, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani”. Ancor più decisivo però mi pare il numero 146 della Carta degli operatori sanitari, pubblicata nel 1995 a cura del Pontificio Consiglio omonimo: «Verso i feti abortiti gli operatori sanitario hanno degli obblighi particolari.
Il feto abortito, se ancora vivente, nei limiti del possibile, dev’essere battezzato. Al feto abortito, e già morto, è dovuto il rispetto proprio del cadavere umano. Ciò implica che non ci si può disfare di esso come di un qualunque rifiuto. Nei limiti del possibile gli va data adeguata sepoltura. Come anche il feto non può diventare oggetto di sperimentazione e di espianto di organi, se fatto abortire volontariamente. Sarebbe una indegna strumentalizzazione di una vita umana». Come scrive il giornalista Stefano Lorenzetto, con la sperimentazione «i feti abortiti patiscono un doppio insulto: prima vengono eliminati deliberatamente e poi dissezionati e centrifugati per ricavarne estratti presuntivamente terapeutici. Nei mesi scorsi il mondo è inorridito perché la General Motors ha ammesso l’esistenza d’un progetto sull’impiego di cadaveri, anziché manichini, nei crash test sulla sicurezza delle auto. Per i feti nessuno protesta. Mi sfugge la differenza».
Già: sfugge anche a me.
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