Guarda caso: era Pasqua, stavolta, il giorno in cui, compiendo gli anni, ho varcato la soglia di quello che è l’inizio ufficiale della vecchiaia persino per la politicamente correttissima OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità; dove, ovviamente, quei funzionari non parlano di noi, giunti a questa soglia, come di “vecchi” bensì di “anziani”, qualcuno ancor più delicato addirittura di “seniores”.
Eufemismi pietosi a parte – consolanti come, per un cieco, essere chiamato “non vedente” e per un paralitico “diversamente abile” – sono entrato nella zona spazzatura, come ha confermato proprio in queste settimane il nuovo assetto dell’Auditel, il sistema per rilevare gli ascolti televisivi. Chi ha meno di 15 anni e più di 64 è eliminato dalla rilevazione, non esiste, perchè non interessa agli inserzionisti pubblicitari. Essendo “consumatori deboli”, i bambini (per quanto precoci) e i vecchietti (per quanto arzilli), hanno un bello stare davanti al video, la loro presenza è letteralmente irrilevante, nessuna azienda è disposta a pagare per raggiungerli con i loro messaggi.
Mal sopportando i moralisti che si lagnano della «nequizia dei tempi» e i benpensanti del «dove andremo a finire?», e preferendo sempre e comunque la verità all’ipocrisia dilagante, dico che è giusto così. Anzi, me ne rallegro perchè, pur senza volerlo, con il loro approccio di realismo pragmatico, i pubblicitari aiutano i miei coetanei a tentare di smetterla con la rimozione dell’intollerabile approssimarsi della fine. Un tempo ci volevano santi sul tipo di Alfonso Maria de’ Liguori, che scrivessero libri-choc come Apparecchio alla morte per richiamare i fratelli alla realtà; ora, ci sono le regole dell’Auditel, come monito che è ormai ora di fare le valige. Meglio che niente.
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Per quanto mi riguarda, encore un effort!, come esortava il marchese De Sade, ovviamente pensando a tutt’altro. Ancora uno sforzo, dunque: al massimo qualche migliaio di giorni ed è fatta, la preparazione all’Esame va verso la fine e ci si avvia a sostenere il Giudizio (il solo che conti, quello con la maiuscola), confidando ovviamente ben più sull’indulgenza che sulla giustizia dell’Esaminatore. Quanto a ciò che si lascia indietro, alle “spoglie”, come si dice – in attesa di riprenderle, non sappiamo come, ma la Speranza ci dice che avverrà – da tempo ho fatto a chi di dovere una sola raccomandazione: rispettare l’istintiva allergia che ho da sempre per i cognomi prima del nome. Dunque, sulla pietra tombale – quale che sia – prima il nome di battesimo, poi il nome della famiglia, come logica e gusto richiedono, tranne che per i burocrati e i loro elenchi. Un motto, su quella pietra? Non dispiacerebbe un paolino Scio cui credidi o la bellissima iscrizione catacombale Domus secunda. Donec tertia. Ma chi, oggi, sa capire il latino? Per uno come me, che ha dedicato la vita alla divulgazione, che si è sforzato di farsi comprendere da tutti, avendo orrore delle oscurità e dei cripticismi degli intellettuali, sarebbe una bella contraddizione. Insomma, mettano quel che gli pare o anche niente, purché non mi mettano ad arrostire: tra le cose che mi è difficile perdonare ai preti di oggi e che meno apprezzo del contraddittorio papato di Paolo VI, c’è l’avere permesso ai credenti la cremazione, questo ritorno al paganesimo, questa bandiera massonica, concedendo la distruzione di un segno cristiano imprescindibile come l’inumazione nella terra. Per eventuali scritte facciano dunque loro, i superstiti, astenendosi in ogni caso dagli elogi che coprono le tombe e che provocano la famosa domanda del bambino in visita al cimitero: «Papà, ma i cattivi dove li seppelliscono?». Il computo di meriti e demeriti tocca a Qualcun Altro. Agli uomini si addice il silenzio; cosa che non sanno più neanche gli uomini di Chiesa che, nelle omelie dei funerali, fanno ciò che un tempo era loro vietato dalle norme canoniche. E, cioè, l’elogio del defunto che, al pari della condanna, non è cosa che competa agli uomini. Soprattutto, poi, a cadavere presente. Ma questi sono tempi dove, come si sa, ai funerali scrosciano gli applausi in chiesa, contraddizione suprema per lo spazio liturgico e tollerata se non favorita dai celebranti.
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Qualcuno forse, vista l’angoscia della cultura egemone che ha contagiato anche non pochi credenti, si sorprende di questo mio parlare esplicito di simili cose? In realtà sarebbe curioso che facesse storie uno che, quando non aveva che quarant’anni, si è imposto di fare i conti con il Problema, pubblicando un libro dal titolo scandaloso persino per l’editore cattolico che lo pubblicò e che cercò di farglielo “attenuare” Scommessa sulla morte.
Eppure, come mi è capitato di dire da qualche parte – e come riflettevo nei giorni del fatidico compleanno – è singolare che, pur del tutto conscio della mia età e del tutto allergico a ogni giovanilismo, non riesco ancora a dire “ai miei tempi”. I miei tempi li sento questi che viviamo e mi sento a mio agio anche (non so loro, però) con i ragazzi come con i miei coetanei. Non ho nostalgia per il passato, ho anzi un brivido di disagio se penso alla bigotta, provinciale Italia democristiana e comunista,
quella dello scandalo dei militanti rossi per la convivenza di Palmiro con la signorina Nilde o del mitico schiaffo di Oscar Luigi – notabile cattolico con l’eterno gessato e con la lezione moralistica sempre pronta – a una signora scollata al ristorante. Film o riproposta di trasmissioni in bianco e nero della mia giovinezza non mi danno alcuna dolcezza nostalgica: mi intristiscono. L’ipocrisia dominante oggi è quella, così molesta, del “politicamente corretto”; ma era altrettanto molesta quella d’allora, con repressioni, censure, silenzi, perbenismi.
Qualche volta, mi sorprendo a pensare che c’è stato anche qualcosa di positivo in quel Sessantotto dal quale, peraltro, non mi feci affatto coinvolgere, stando a guardare in un angolo, aspettando che finisse. Ogni carnevale, ne ero consapevole, prima o poi ha un termine. Non ho occupato aule di scuola né binari di ferrovie, non sono sfilato in corteo, ho schivato ogni pressione per far parte di qualcuno degli infiniti gruppuscoli, non ho firmato appelli, non ho sperato nel futuro radioso di un “mondo nuovo” da far nascere con l’ alleanza tra intellettuali e operai. Di Mao, di Castro, di Ho Chi Minh, di Pol Pot e degli altri loro pari sapevo poco perché poco mi interessava sapere, ma ero certo che non c’era da invidiare coloro che se li trovavano addosso. Me ne stavo lontano anche dai democristiani, non ebbi mai a che fare neppure con loro, ma ai leader esotici, idoli dei mie coetanei, preferivo di gran lunga i ben meno carismatici ma ben meno invadenti Andreotti, Rumor, Piccoli. Sapevo già abbastanza di storia per prevedere che – come sempre è successo e sempre succederà – sarebbe scattata la tagliola dell’etoregenesi dei fini e le attese messianiche, gli impegni sociali, le lotte politiche si sarebbero presto rovesciate nel loro esatto contrario.
Eppure, per stare anche solo al mondo della scuola: credete a me che li ho conosciuti bene, quelli che la contestazione chiamava “i baroni delle cattedre”, a parte qualche eccezione (il “mio” Alessandro Galante Garrone, ad esempio), baroni lo erano davvero. Ho sperimentato troppe volte, negli anni universitari, la loro boria, la loro vanità, la consapevolezza del loro piccolo potere, l’indifferenza e la lontananza dagli studenti, abbandonati – quando andava bene – ad assistenti ossequiosi e adulanti come trepidi portaborse. Mi è capitato talvolta di pensare che il solo gruppo “terroristico” di cui ancor oggi farei volentieri parte è quello che mi pare abbia sede in Olanda (o in Belgio?) ed è costituito di lanciatori di torte alla panna. Un bersaglio in piena faccia a qualcuno di quei baroni e tutto sarebbe stato sistemato, come difatti successe: si sa che ne uccide ben di più il ridicolo che la spada. Quegli anni condussero anche a conseguenze tragiche, portarono droga, terrorismo, demagogia, risolsero forse qualche problema ma ne crearono altri ben maggiori. Non furono affatto tutti “formidabili”, come dice Mario Capanna, leader un po’ grottesco ma, in fondo, più innocuo che altri, di quel periodo. Ma non furono neanche tutti da buttare, qualche merito lo ebbero, come la desacralizzazione di certe autorità che andavano ricondotte a dimensioni più adeguate alla loro miseria. Così, non fu tutta negativa neanche la rivoluzione dei costumi, a cominciare proprio da quelli in senso proprio, quelli da indossare. Le nuove generazioni non sanno cosa fosse un’altra sacralizzazione: la giacca, la camicia bianca, la cravatta, da indossare sempre, anche in piena estate. La qualità della vita passa pure attraverso cose simili, che non sono irrilevanti: da giugno a settembre, con una camicia dalle maniche corte, con pantaloni di cotone e mocassini leggeri è più facile elevare lo spirito che non calati nella corazza torrida di indumenti che il Sessantotto, appunto, ha meritoriamente spazzato via. Il mito del “decoro” richiedeva sacrifici pesanti.
Quanto a “costumi” diversi, quelli sessuali: guardate – visto che l’umanità è e sarà sempre eguale, checché ne pensino patetici discepoli superstiti di Rousseau – guardate che quel che adesso è alla luce del sole c’era tutto anche allora, ma nascosto. Le ricordo bene le pruderies dietro le quali stavano realtà in quei tempi inconfessabili e oggi invece rivendicate a voce alta. Noi che ci diciamo seguaci di un Libro che condanna il fariseismo ed esorta alla verità più esplicita, dovremmo, forse, riflettere: c’era davvero molto di buono in una ipocrisia come quella? o non sarà che l’emergere di realtà che il cristiano giudica deviate, facilita, in qualche modo, l’impegno dell’apostolo?
Erano davvero evangelici i tempi in cui molti peccati erano anche reato e in cui, per dire, l’adultero sorpreso con l’amante era ammanettato e condotto in prigione, mentre nelle questure agivano “squadre del buon costume” che avrebbero avuto l’approvazione di un ayatollah iraniano, oltre che di Savonarola e di Calvino?
La prospettiva, che è anche tomista, del “male minore” ha le sue ragioni e non voglio tranciare giudizi su questioni tanto complesse: ma c’è davvero da rimpiangere che generazioni di ragazze non siano più arruolate sin da giovanissime per rifornire i bordelli i cui guadagni erano divisi tra tenutari e fisco statale? Adesso le abbiamo per le strade, d’accordo: ma potrebbe darsi che un male valga più o meno l’altro. Conosco i rischi dell’omocrazia, deploro le derive di un omosessualismo fattosi sempre più sfacciato, trovo intollerabili certe pretese di quelli che si sono denominati “allegri”, gay, forse per esorcizzare certe cupe tristezze di quel mondo. Ma è proprio l’età che mi fa ricordare, senza alcuna nostalgia, gli scherni feroci, l’emarginazione sino alla morte civile, magari le violenze fisiche cui vidi sottoposti coloro che erano sospettati di essere “diversi”. E non per vizio, ma per un enigmatica singolarità che, in ogni tempo e in ogni popolo, coinvolge una percentuale stabile di persone. Così, non mi ha mai entusiasmato l’ostracismo che colpiva quelle che venivano definite “ragazze madri” e la cui creatura qualcuno ancora chiamava “il frutto del peccato”.
Per passare ad altro: ogni volta che mi siedo sulla poltrona del dentista e so che il professionista mi inietterà anestetici efficacissimi e opererà con trapani elettronici praticamente indolori, devo forse rimpiangere i terribili trapani elettrici e le anestesie sommarie della mia giovinezza?
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Per tornare all’oggi: per ora, almeno, l’età non mi sembra tagliarmi fuori da un tempo figlio anche del Sessantotto, della secolarizzazione, della liberazione dei costumi, del superamento di una certa “cristianità” sociologica. Mi trovo a mio agio in questa open society, in questa società aperta, come la chiamava Karl Popper, questa società ormai sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo vangelo, da proporre e mai da imporre. So che non può esserci virtù vera senza la possibilità di optare per il peccato. Mi piace la vita come avventura, dove santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, la possibilità di anonimato delle conurbazioni urbane, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani. Mi angoscia invece la vita come caserma dei fascisti, come falansterio sociale dei comunisti, come casetta di Biancaneve degli ecologisti, come convento o seminario obbligatori dei clericali.
Tutti i miei libri, del resto, li ho scritti pensando all’uomo della città secolare, non ai nostalgici di una cristianità ormai dissolta. Quando mi fu dato di incontrare quel cristianesimo che rifiutavo senza darmi la pena di conoscerlo, non avvertii alcuna vocazione al sacerdozio, sentii con chiarezza che la mia chiamata era alla laicità. Ma pensai che, se proprio avessi dovuto seguire una strada diversa, questa sarebbe stata in mezzo alla mischia: ad esempio, in una parrocchia del centro di Torino, di Milano, di qualche altra grande città industriale, per confrontarmi con la postmodernità che proprio allora dava i primi vagiti, non certo nell’idillica chiesetta di un comunello rimasto ancora, provvisoriamente, ai tempi antichi.
Sono, dunque, uno strano anziano, che ha poco da rimpiangere, che (sia ben chiaro!) rispetta il passato e venera la catena di generazioni che ha portato la fede sino a noi, che giudica severamente la richiesta di scuse e di perdono per quei fratelli, ma che non si adatterebbe volentieri al loro mondo, pur con tutte le sue indubbie, nobili grandezze.
C’entra forse qualcosa questa riflessione personale con quell’impegno apologetico che sta a cuore a me come agli altri redattori e ai lettori di questo giornale?
Ma sì, mi pare che qualcosa c’entri: non siamo i difensori delle ragioni di una fede che, per essere accettata e per esplicarsi, ha bisogno del ritorno a un mondo che non c’è più. Siamo chiamati a riannunciare il Vangelo al mondo così com’è. In molte
cose non è migliore di quello di un tempo. Ma non è neanche detto che sia sempre e solo peggiore. «Non c’è più religione!», lamenta spesso il vecchio. In realtà non c’è più «una certa religione». Sta a noi mantenere integro il messaggio, radicandolo in una società mutata perchè sempre mutevole. La nostalgia è forse una virtù cristiana?
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 64 – 66