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15.12.2024

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Rolando Rivi e la verità sui martiri della guerra civile
2 Dicembre 2014

Rolando Rivi e la verità sui martiri della guerra civile

Rolando Rivi e la verità sui martiri della guerra civile

La vicenda del seminarista della diocesi di Reggio Emilia ucciso dai partigiani comunisti a soli 14 anni e beatificato il 5 ottobre dello scorso anno, dopo una rimozione durata decenni,ha aperto una via che potrebbe portare a riesaminare il sacrificio di tanti laici e sacerdoti uccisi in odium fidei nel «Triangolo della morte». Portandoli sugli altari

Quando il 13 aprile 1945 il seminarista Rolando Rivi venne ucciso con due colpi di rivoltella da una formazione di partigiani perché reo di rappresentare ai loro occhi un ostacolo alla penetrazione del comunismo nel suo paese, il suo martirio era già più che chiaro. Don Luigi Braglia, il parroco che celebrò il suo funerale infatti, alle Piane di Monchio in provincia di Modena, dove era stato tenuto prigioniero e torturato per tre giorni con cinghiate alla schiena, umiliazioni e percosse fino alla mutilazione genitale, certificò fin da subito la natura malvagia di quell’esecuzione, dettata da un falso spirito patriottico.
Per giustificare quella morte atroce Rolando venne accusato dopo la sua morte di essere una spia, ma quel parroco, che nel registro parrocchiale decretò l’uccisione «per mano di uomini iniqui», di fatto riconobbe seduta stante il martirio.

Quando la violenza si tagliava con il coltello

Rolando aveva appena 14 anni, ma aveva imparato a riconoscere in seminario la posta in gioco in quell’Emilia, poi ribattezzata il Triangolo della morte: partigiani rossi e partigiani cattolici con due visioni opposte di giustizia sociale da un lato, dall’altro nazifascisti oppressori e a margine quella vastissima zona grigia di popolazione che non stava né da una parte né dall’altra, ma che pagava più di tutti la violenza non solo degli occupanti tedeschi, ma anche dei partigiani  comunisti che spesso si servivano delle famiglie contadine come base per tendere i loro agguati e poi scappare, lasciandoli da soli a fronteggiare la ritorsione tedesca.
Rolando sapeva tutto questo perché lo viveva nei volti delle persone del suo paese dove era rientrato nell’estate del ’44, dopo la chiusura del seminario di Marola (in provincia di Reggio Emilia, sulle prime pendici dell’Appennino) e lo sapeva perché in seminario era stato formato a riconoscere il bene dal male, chi davvero lottava per la patria, come il partigiano Carlo, don Domenico Orlandini, che venne decorato dagli inglesi con la Victoria Cross e che veniva considerato dai seminaristi come Rolando un eroe da imitare, e chi invece combatteva un’altra guerra con la scusa della liberazione dagli invasori per introdurre una nuova e più feroce dittatura, cacciare i preti e illudere i contadini che presto sarebbero stati tutti padroni. D’altra parte la Chiesa, dopo un lungo e travagliato cammino fatto di depistaggi, calunnie, segreti e misteri, ma anche difficoltà di comprensione e accettazione di quella morte, nel beatificare Rolando non ha soltanto proclamato la santità del primo seminarista di un seminario minore nella storia della Chiesa, ma ha anche portato sugli altari il primo religioso vittima del Triangolo della morte, entrando così con la sua autorevolezza nel dibattito sulla corretta interpretazione della storia della nostra guerra civile, sancendo che in quel triennio terribile, dal ’43 al ’46, si uccideva in odio alla fede cristiana. E questo odio era alimentato e coperto dal Pci e poi da quel vasto arcipelago di formazioni partigiane che spesso lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale non riusciva o non voleva arginare nella violenza perpetrata.

Tradito dai suoi compaesani

Eppure, nonostante don Luigi Braglia avesse fin da subito sancito il suo martirio, la Chiesa ha impiegato quasi 70 anni per riconoscerlo ufficialmente. Anni difficili, soprattutto quelli immediatamente successivi alla morte di Rolando, in cui la propaganda comunista mise a tacere tutti, calunniando la sua figura di ragazzo innamorato di Gesù e costringendo la Chiesa a cercare una via della riconciliazione “forzata”, dove la verità su quell’uccisione venne sacrificata sull’altare della pacificazione post bellica.
La verità riuscì ad imporsi non prima del 1954, quando la Cassazione mise la parole fine alla sua vicenda giudiziaria condannando i due assassini di Rolando, Giuseppe Corghi e Delciso Rioli, rispettivamente commissario politico e comandante della formazione partigiana “Frittelli”, appartenente alla brigata Dolo. Prima di quei processi iniziati nel 1951 con la condanna in primo grado a Lucca, la Chiesa di Reggio Emilia, la diocesi di appartenenza di Rolando, seppe sempre poco di quella storia. Così le calunnie sul suo conto, i dubbi sulla sua scomparsa e i tentativi di giustificare la sua uccisione perché spia al soldo dei nazifascisti si diffusero a macchia d’olio, infestando il suo ricordo e impedendo anche
nel clero locale un riconoscimento di quel sacrificio, che lo ha accomunato in tutto e per tutto alla Passione di Gesù. Rolando infatti venne tradito esattamente come quel Gesù cui lui asseriva di appartenere. Tradito da partigiani del suo paese, San Valentino, sulle prime colline reggiane. Giovani indottrinati dalla violenza comunista, che lo conoscevano bene e che lo fecero allontanareda casa con il pretesto di essere utile alla causa dei partigiani cattolici delle Fiamme Verdi, per poi tradirlo e portarlo su in montagna dove trovò la morte spogliato della veste talare. E che non fecero nulla per fermare le atrocità dei loro comandanti, portando con sé fino alla morte la verità su quel che accadde alle 15 del pomeriggio di quel venerdì 13 aprile, quando, dopo flagellazioni e umiliazioni, avvenne l’assassinio.

La Passione di un amico di Gesù
Al pari di Gesù, come affermarono i partigiani testimoni al processo di secondo grado, Rolando chiese di pregare per i genitori prima che la pistola di Corghi lo freddasse con due colpi al fianco e al cuore. Pregò per mamma e papà, proprio come Gesù fece dalla croce consegnando a Giovanni sua madre. Questi aspetti del martirio, che vennero di fatto sanciti dalle sentenze di un tribunale italiano, caso unico in cui la giustizia civile è arrivata a riconoscere un martirio in odium fidei ancor prima delle autorità ecclesiastiche, fanno emergere una figura, quella di Rolando, che si staglia nel panorama
della sua epoca come un giovane che seppe fronteggiare nelle discussioni i coetanei imbevuti di ideologia comunista, ma soprattutto che invitava gli amici alla Messa e a conoscere Gesù.
Un’obbedienza alla Chiesa, la sua, che si vede molto bene nel suo ostinarsi a non togliersi la veste talare, come invece suggerito dai genitori che assistevano all’odio crescente nei confronti del clero. Fu il vescovo di Reggio Emilia Eduardo Brettoni a raccomandare ai seminaristi che non dimoravano più in seminario, ma a casa, di continuare a portare la talare. Per essere ben riconosciuti e non scambiati come disertori o partigiani in fuga, ma anche, come testimoniato da una lettera che il rettore del seminario don Luigi Bronzoni scrisse ai seminaristi, perché «attraverso l’abito che portate riluce la bontà e la fortezza nelle virtù, segni che rivelano in voi la presenza di Cristo Redentore di fronte ai motteggi o agli insulti che vi fanno soffrire». Ecco perché quell’invito venne tradotto da Rolando con quel «Io sono di Gesù» che è diventato il suo motto più celebre e l’unica frase che gli si possa attribuire con certezza.
Ecco la prima virtù della santità: l’obbedienza alla Chiesa che Rolando riconosceva nel suo vescovo e nel suo rettore.
Obbedienza anche nel portare l’abito di fronte all’odio anticlericale in un contesto in cui Rolando, figlio del mezzadro del parroco di San Valentino, don Olinto Marzocchini, era visto come un nemico di una lotta di classe che lo stesso prevosto dovette sperimentare dolorosamente, quando prima della morte del giovane venne rapinato e fatto oggetto di una sistematica caccia all’uomo che lo portò presto all’esaurimento nervoso. Quello stesso abito che oggi per pigrizia e dileggio, ma anche per una imprecisa idea di sacerdozio, tanti preti dismettono troppo volentieri.

La vera pacificazione nasce dalla verità
Alla fine però la verità si è fatta strada, grazie all’opera coraggiosa e eroica del padre Roberto, che non smise un secondo di pregare per gli assassini e di chiedere giustizia per il figlio, ma anche grazie alle ricerche dei cugini di Rolando, Sergio e Alfonsino, sui luoghi del martirio e nel difficile contesto di San Valentino, cui si unirono ben presto i tentativi di un modenese intrepido, Alberto Fornaciari, di chiedere una causa di beatificazione.
È con questa verità salvata dall’oblio che il Comitato Amici di Rolando Rivi, oggi presieduto dall’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri, ha potuto avviare nel 2006 la causa di beatificazione che ha visto la sua conclusione con la Messa solenne di proclamazione a Modena il 5 ottobre 2013. È una verità che per farsi largo ha dovuto bucare il terreno più duro, ma soprattutto chiamare le cose con il loro nome, esercitando quella libertà come adesione al Vero senza la quale nessuna
pacificazione è possibile. Perché non si può perdonare se prima non si conosce la verità. E questo valeva per la vicenda gloriosa di Rolando, ma anche per tutte quelle storie dimenticate di vittime dell’odio comunista che hanno insanguinato il nord Italia e l’Emilia in particolare, alle quali non è stata mai data nemmeno una degna sepoltura né un colpevole al quale chiedere un perché.
Ecco che la storia di Rolando potrebbe aprire un nuovo cammino, non meno irto di ostacoli perché ancora oggi parlare di Rolando nobilita o scandalizza. Non sono infrequenti gli episodi in cui amministrazioni comunali o scuole si dedicano anima e corpo nel ricordare e far conoscere questo giovane, così vicino per ideali, età e sorte a quel José Sanchez Del Rio, 14enne messicano simbolo dei Cristeros, che la Chiesa ha beatificato e il cui martirio vediamo oggi raccontato nel film Cristiada. Ma sono ancora troppi i casi in cui altre amministrazioni o scuole negano patrocini a eventi nel suo nome o visite a mostre sulla sua storia, con un ostracismo decisamente fuori tempo massimo.

Quei martiri che aspettano un riconoscimento
Si fa largo dunque un’ipotesi, che la beatificazione di Rolando ha reso possibile: la Chiesa ha messo una parola decisiva sull’odium fidei che ha animato tanti, troppi protagonisti della Resistenza. E forse non sarebbe improprio iniziare a chiedersi se anche gli altri sacerdoti che hanno trovato la morte per mano di partigiani comunisti, ma anche i coraggiosi partigiani bianchi uccisi come il giornalista Giorgio Morelli, il Solitario, e il comandante Mario Simonazzi, Azor, non meritino di essere portati sugli altari come martiri della guerra civile italiana. La sola diocesi di Reggio Emilia, infatti, ha visto uccidere 11 sacerdoti nel biennio ’44-’46.
Una beatificazione “collettiva”, al pari di quella dei 498 martiri spagnoli beatificati da Benedetto XVI e che trovarono la morte durante la guerra di Spagna per difendere la fede cattolica dall’ideologia marxista. Non per puro spirito revisionista, ma perché è chiamando i martiri con il loro nome che questi possono poi con il loro seme generare altri cristiani.
È un compito gravoso, ma ormai irrinunciabile. Ancor oggi nel mondo, come le vicende siriane e irachene ci mostrano, riconoscere la morte in odium fidei dei propri fratelli è il primo atto di carità nei loro confronti, ma anche il primo passo per far vincere la verità. E Rolando parla ancora oggi ai giovani di questo:
un ideale di vita cristiano, che non ha paura del mondo e delle sue ideologie. â–

Il Timone – Dicembre 2014

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