È lungo l’elenco dei sacerdoti che si sono santificati “in confessionale”. Dal santo Curato d’Ars a Padre Pio da Pietrelcina. Da san Giovanni Bosco a san Leopoldo Mandic. Il loro ministero fu ricco di frutti straordinari. Un esempio mirabile per tanti preti dei nostri giorni.
Il sacramento della remissione dei peccati subì sin dai primordi molti attacchi. Tale accanimento aveva ed ha radice nella volontà diabolica di far perire nell’impenitenza i cristiani, sì da dannarli per tutta l’eternità.
Il primo attacco si ebbe con il rigorismo di coloro che non volevano perdonare i lapsi, i cattolici cioè che, di fronte alla prospettiva del martirio avevano rinnegato la fede, ma poi chiedevano di essere riammessi nella Chiesa. San Cipriano, morto martire nel 258, difese il sacramento e la sua universalità salvifica anche di fronte a peccati gravissimi come l’apostasia, l’adulterio, l’infanticidio e l’omicidio. Questa era la pratica costante delle Chiese sia Romana che Orientali, pratica che non venne annullata da qualche eccezione locale di rigore usato specialmente verso coloro che erano caduti nella apostasia una seconda volta.
Altri attentati al sacramento avvennero per interesse e con la violenza, come nel caso di san Giovanni Nepomuceno (1330/1340 circa – 1393), sacerdote e predicatore alla corte di re Venceslao che lo fece uccidere, dopo lunghe torture, per annegamento, a causa del suo rifiuto di rivelare le confessioni della regina. Il martire della libertà ecclesiastica è perciò venerato anche come testimone del sigillo sacramentale, il segreto assoluto cui è per sempre tenuto il confessore riguardo a notizie conosciute in confessione, sotto pena di scomunica. L’attacco più duro e durevole, però, si ebbe con l’eresia luterana e le sue ramificazioni che eliminarono la Confessione dal novero dei Sacramenti. Si volle togliere ai cristiani l’unico mezzo sacramentale per riconciliarsi con Dio dopo il Battesimo, quello che Tertulliano definisce un “secondo battesimo”, perché riporta la veste battesimale al candore originario.
La Provvidenza rispose donando alla Chiesa fulgidi esempi di martirio nel dispensare questa grazia insuperabile. Togliendo la Confessione, infatti, si consegnava l’uomo al moralismo farisaico più rigoroso o, in caso di caduta nel peccato, alla sfrenatezza di chi ormai crede di non essere più recuperabile.
San Carlo Borromeo (1538-1584), nel pieno della Riforma cattolica di cui fu instancabile promotore, introdusse l’uso della grata al confessionale, per aiutare i peccatori ad accedere senza vergogna alla grazia del perdono. I Gesuiti diffusero in tutto il mondo la pratica della confessione frequente e della direzione spirituale.
San Filippo Neri (1515-1595) accettò di essere ordinato prete per obbedienza al suo direttore spirituale e confessore. Per le sue bizzarrie fu definito il buffone di Dio, fu devotissimo di Savonarola e del suo rigore estremo, ma al contempo pieno di dolcezza e di allegria anche nel dispensare la grazia sacramentale. Dedicava lunghe ore al giorno alla penitenza, ricevendo i peccatori sino a tarda notte. Usava l’umorismo anche in confessionale, come quando diede ad una donna che peccava di maldicenza la penitenza di spennare una gallina morta per strada e poi di raccoglierne tutte le piume sparse dal vento. Nel turbine dell’infezione illuminista San Pompilio Maria Pirrotti (1710-1766) sostenne e difese la pratica della Comunione frequente e quotidiana e perciò della confessione abituale, cui si dedicò senza riserve. Subì accuse calunniose e due volte fu sospeso dalle funzioni sacerdotali, venendo però sempre poi riabilitato. Morì subito dopo essere stato portato fuori dal confessionale dove aveva avuto un malessere.
Il prete più famoso di questo periodo fu senza dubbio San Giovanni Maria Vianney (1786-1859), meglio conosciuto come il curato d’Ars. Considerato troppo stupido e incapace di studiare per diventare prete, fu ordinato tuttavia grazie all’appoggio di un parroco amico. Come molti mistici conobbe per grazia l’abisso della sua miseria e ne fu talmente spaventato da chiedere subito a Dio che gliela facesse dimenticare. Per tutta la vita di prete fu parroco di Ars ed ebbe a cuore la conversione dei suoi fedeli. Per essi, sull’esempio di Gesù Cristo, si offriva a Dio compiendo egli stesso l’espiazione per i loro peccati. Dormiva pochissimo su nude assi, mangiava poche patate bollite, si flagellava sino a svenire perché sapeva che, come parroco, doveva dare la sua vita per le proprie pecore, per espiare ciò che per esse sarebbe stato troppo pesante. «Mio Dio, – diceva – concedetemi la conversione della mia parrocchia. Io sono disposto a soffrire tutto quello che Voi vorrete, per tutta la durata della mia vita… purché si convertano». Tale zelo per la conversione e tale offerta di sé gli portò nel confessionale decine di migliaia di persone da tutta la Francia, tanto che trascorse gli ultimi vent’anni della vita passando 15-17 ore al giorno in confessionale a partire dalle due di notte, col caldo soffocante o al gelo. Rude nella predicazione per fustigare il peccato, era dolcissimo e misericordioso nell’incontro con i peccatori. Spessissimo – soprattutto quando si trovava davanti peccatori scarsamente consapevoli del proprio peccato e dunque scarsamente pentiti – il santo Curato cominciava a piangere. Il “martirio del confessionale” era testimonianza e visibilizzazione del dolore di Dio per il peccato. Il curato d’Ars leggeva nei penitenti come in un libro e, soprattutto, convertiva gli animi. Di lui papa Giovanni Paolo II nel libro Dono e mistero scrive: «Dall’incontro con la sua figura trassi la convinzione che il sacerdote realizza una parte essenziale della sua missione attraverso il confessionale, attraverso quel volontario “farsi prigioniero del confessionale”». San Giuseppe Cafasso (1811-1860), nella Torino massonica e anticlericale, era popolarmente conosciuto come il “prete della forca”, a motivo del delicato ministero esercitato nell’assistenza spirituale dei carcerati e dei condannati a morte che accompagnò alla forca non prima di averli convertiti, e che era solito chiamare affettuosamente i miei “santi impiccati”. A lui Torino ha dedicato un monumento proprio all’incrocio dove si trovava la forca sino alla quale esercitava il suo ministero della misericordia.
Del suo amico san Giovanni Bosco (1815-1888) è memorabile l’episodio di uno dei suoi ragazzini che, in punto di morte, non poté averlo come confessore e morì senza confessare un peccato mortale, per vergogna, davanti ad un altro sacerdote. Quando giunse don Bosco lo resuscitò e lo confessò di nuovo. Il fanciullo raccontò di essersi trovato alle porte dell’inferno e di essere stato in punto di entrarvi per tale omissione, fino al momento in cui don Bosco l’aveva richiamato in vita. Dopo l’asso-luzione chiuse gli occhi e morì in grazia di Dio.
San José Maria Rubio Peralta (1864-1929), gesuita canonizzato da Giovanni Paolo II nel 2003, dal confessionale dispensò il perdono di Dio e una direzione spirituale così feconda che formò molti cristiani che poi sarebbero morti martiri durante la persecuzione comunista della repubblica in Spagna.
S. Leopoldo Mandic (1866-1942) ebbe chiara la sua vocazione di sacerdote e confessore a otto anni, quando, per una lieve colpa, fu aspramente rimproverato dal parroco e messo in ginocchio in mezzo alla chiesa. Rimase molto addolorato e disse a se stesso: «Quando sarò grande voglio farmi frate, diventare confessore, e avere tanta bontà e misericordia con i peccatori!». Divenuto prete era così misericordioso da essere tacciato di usare troppo la manica larga. A tal punto che i suoi superiori sconsigliavano i giovani di andare a confessarsi da lui, perché non approfittassero della sua bontà. In un tempo in cui le penitenze erano ancora significative e non solo simboliche, in effetti, nella logica espiativa di Gesù e in modo simile al curato d’Ars, spesso concedeva dispense e diceva: «Farò io penitenza per voi, pregherò io per voi». Per tutta la vita si votò alla conversione degli scismatici orientali, tuttavia mai poté esercitare nella sua Dalmazia il ministero. Comprese che il suo “oriente” erano i penitenti che lo assediavano nella sua celletta-confessionale per 10-15 ore al dì per trent’anni. Se qualche penitente era impacciato o vergognoso egli stesso si alzava e lo accoglieva a braccia aperte, ma la sua non era certo una dolcezza a buon mercato. Un uomo che era entrato da lui senza vera conversione cercando di difendere i propri peccati, dopo che san Leopoldo le aveva provate tutte per ammorbidirlo, l’aveva visto levarsi in piedi (era alto un metro e 35 centimetri!), piccolo ma terribile, ed esclamare: «Se ne vada, se ne vada! Lei si mette dalla parte dei maledetti da Dio!». Quel poveretto era quasi svenuto dalla paura e s’era prostrato a terra piangendo; solo allora il santo l’aveva sollevato, abbracciato e gli aveva detto: «Vedi, ora sei di nuovo mio fratello!». Non era dolce quando qualcuno si voleva giustificare o minimizzava il peccato, ma lo diventava quando si riconosceva umilmente peccatore. Compiva miracoli portentosi, ma negava di esserne lui la causa. «Ma che colpa ne ho – diceva – se vengono con tanta fede e se, per la loro fede, il Padrone Dio li esaudisce?». Tuttavia in un altro momento, citando san Giovanni Bosco, spiegò che i miracoli costano moltissimo, a tal punto che sarebbe meglio non avere il dono di farne. Continuò spiegando che i santi, quando si trovano davanti ad un infelice, si mettono davanti a Dio e Gli dicono: «Signore, getta su di me la pena di quest’anima. Mi offro io per lei» ed essi sono così uniti a Lui che sanno con certezza quando il cambio viene accettato. Insegnava che «Un sacerdote deve morire di fatiche apostoliche: non c’è altra morte degna di un sacerdote». E così avvenne. Nell’ultima notte della sua vita, infatti, un religioso andò a bussare tardissimo alla sua porta per confessarsi ed egli, pur stremato dal tumore all’esofago, lo invitò ad entrare con la sua solita formula-preghiera «Eccomi, eccomi». Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale che quasi rasero al suolo il suo convento, come egli aveva profetizzato, la sua celletta-confessionale rimase miracolosamente intatta.
Il santo che più di altri è conosciuto per il “martirio del confessionale” è senza dubbio san Padre Pio da Pietrelcina (18871968), straordinario taumaturgo e apostolo del confessionale. Un numero incalcolabile di uomini accorrevano al suo confessionale, dove egli trascorreva anche quattordici-sedici ore al giorno, per lavare i peccati e ricondurre le anime a Dio. Il 20 settembre 1918, il cappuccino ricevette le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni e che gli causarono innumerevoli visite e persecuzioni anche da parte di religiosi. Venne sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse calunniose, poté essere reintegrato appieno nel suo ministero sacerdotale. Il card. Tarcisio Bertone disse nell’omelia del 14 ottobre 2006 ai pellegrini delle opere di Padre Pio: «Proprio il ministero di confessore costituisce il maggior titolo di gloria e il tratto distintivo di questo Frate Cappuccino. Chi lo incontrava avvertiva in lui la compassione di Cristo, ed anche quando veniva talora rimandato senza l’assoluzione, il penitente sapeva che se, sinceramente pentito, ritornava al suo confessionale, sarebbe stato accolto con paterna tenerezza».
LA DOTTRINA CRISTIANA. DAL COMPENDIO DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
298. Quando fu istituito questo sacramento?
Il Signore risorto ha istituito questo Sacramento quando la sera di Pasqua si mostrò ai suoi Apostoli e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23).
302. Quali sono gli elementi essenziali del Sacramento della Riconciliazione?
Sono due: gli atti compiuti dall’uomo, che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo, e l’assoluzione del sacerdote, che nel Nome di Cristo concede il perdono e stabilisce le modalità della soddisfazione.
303. Quali sono gli atti del penitente?
Essi sono: un diligente esame di coscienza; la contrizione (o pentimento), che è perfetta quando è motivata dall’amore verso Dio, imperfetta se fondata su altri motivi, e che include il proposito di non peccare più; la confessione, che consiste nell’accusa dei peccati fatta davanti al sacerdote; la soddisfazione, ossia il compimento di certi atti di penitenza, che il confessore impone al penitente per riparare il danno causato dal peccato.
304. Quali peccati si devono confessare?
Si devono confessare tutti i peccati gravi non ancora confessati, dei quali ci si ricorda dopo un diligente esame di coscienza. La confessione dei peccati gravi è l’unico modo ordinario per ottenere il perdono.
305. Quando si è obbligati a confessare i peccati gravi?
Ogni fedele, raggiunta l’età della ragione, ha l’obbligo di confessare propri peccati gravi almeno una volta all’anno, e comunque prima di ricevere la santa Comunione.
306. Perché i peccati veniali possono essere anch’essi oggetto della confessione sacramentale?
La confessione dei peccati veniali è vivamente raccomandata dalla Chiesa, anche se non è strettamente necessaria, perché ci aiuta a formarci una retta coscienza e a lottare contro le cattive inclinazioni, per lasciarci guarire da Cristo e per progredire nella vita dello spirito.
310. Quali sono gli effetti di questo sacramento?
Gli effetti del Sacramento della Penitenza sono: la riconciliazione con Dio e quindi il perdono dei peccati; la riconciliazione con la Chiesa; il recupero, se perduto, dello stato di grazia; la remissione della pena eterna meritata a causa dei peccati mortali e, almeno in parte, delle pene temporali che sono conseguenza del peccato; la pace e la serenità della coscienza, e la consolazione dello spirito; l’accrescimento delle forze spirituali per il combattimento cristiano.
Dossier: La Confessione
IL TIMONE – N.61 – ANNO IX – Marzo 2007 pag. 39-41