Quando il card. Ratzinger presiedette in S. Pietro la Missa de eligendo Pontifice prima che si riunisse il Conclave da cui sarebbe stato eletto Papa, sembrò essere così determinato e, quasi, tagliente nell’elencare i mali che affliggono il cattolicesimo del III millennio, che apparve a molti come il tentativo – poi sventato dalla Provvidenza – di voler suscitare nei confratelli elettori una sorta di rifiuto per la sua personalità, che diceva senza infingimenti d’occasione le cose come stavano, quasi ad ipotecare il sospirato ritiro fra passeggiate, letture e musica, dopo tanti anni di servizio.
Le cose andarono diversamente da quanto (forse), in cuor suo, Joseph Ratzinger aveva umanamente pianificato, ma una cosa non è cambiata: tra i mali allora indicati, il secolarismo continua a spadroneggiare, soprattutto nei confronti di una liturgia che, nonostante i moniti del Santo Padre, risulta sempre più secolarizzata e vilipesa.
L’unica nota di tradizione, sul punto, è che il canale privilegiato per tale secolarizzazione resta la musica. Essa, in verità, per sua natura costituzionale, ha sempre veicolato all’interno del recinto liturgico influssi e deviazioni provenienti dal mondo profano, ma in passato si trattava perlopiù di intromissioni di natura squisitamente tecnica, ancorché fuorvianti.
I primi secoli di polifonia, ad esempio, portarono ad un tale vertice le conquiste musicali nel campo, che i testi sacri ne divennero quasi incomprensibili, affogati nella pletora di voci (fino a 24, ma anche oltre!). Da qui una serie di documenti del Magistero papale e dei Concili che giunsero fino al Tridentino, per mettervi un po’ d’ordine. In età barocca il concertismo strumentale e il virtuosismo belcantistico si appropriarono di molti spazi liturgici, occupandoli spesso manu militari, e poi fu la volta del prepotere melodrammatico che arrivò addirittura a contagiare il repertorio organistico, ridotto a volte a scimmiottamenti bandistici.
Ma i documenti magisteriali continuarono a riprovare ufficialmente tali deviazioni: Papi e Vescovi spesso si pronunziarono contro quelle indebite inframmettenze, fin quando la riforma solesmense, il cecilianesimo e il movimento liturgico iniziarono ad arginare dovutamente tali nefandezze anche sul piano del pensiero e crearono il terreno fertile su cui germogliò la riforma di S. Pio X.
In ogni caso, però, tutte queste correnti di secolarizzazione arrivavano da una società profondamente cristiana ed imbevuta di sensus ecclesiae: l’esecuzione di un mottetto in stile di romanza donizettiana, per quanto alieno da una tradizione rituale aderente alla liturgia, o le interminabili meravigliose melodie sacre mozartiane, per quanto certamente animate da una buona dose di autoreferenzialità estetica, non presupponevano un “Non serviam!” nel substrato ideologico della musica, che invece oggi ritroviamo in tantissime composizioni che vengono usate nelle liturgie.
Ad esempio: cosa ha di diverso, musicalmente parlando, “Gesù e la Samaritana”, brano indicato da qualche Ufficio liturgico per la III Domenica di Quaresima, da molte colonne sonore dei vellicanti balletti di “Amici” di Maria De Filippi?
Quanto altro repertorio è parodia, anche un po’ vintage di successi anni Sessanta e Settanta dei Nomadi, dell’Equipe84 o dei Giganti?
Ci manca solo che, per la domenica del cieco nato, si canti “Senza luce”, su opportuno adattamento del grande successo dei Dik Dik!
D’altronde, oltre ad essere una bella canzone, aveva una parte organistica di accompagnamento veramente ben fatta. Meravigliosi Anni Sessanta! Ma quando finiranno?