15.12.2024

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Senza fede non c’è arte
31 Gennaio 2014

Senza fede non c’è arte

Le osservazioni dell’intellettuale ebreo Israel Shamir: l’arte vera è quella figurativa «unita indissolubilmente al tempio e alla chiesa, forma squisita di venerazione, che proclama l’affinità fra Dio e l’uomo. La sacralità in Europa è inevitabilmente cristiana».
Ebreo, Israel Shamir è uno dei più liberi e franchi saggisti che mi sia accaduto di leggere di recente. Russo nato a Leningrado, vive in Israele da poco: forse per questo guarda la civiltà mediterranea tradizionale con uno sguardo nuovo, per noi che ci viviamo in mezzo assuefatti alle sue antiche bellezze. Parla rapito di Nafplion, cittadina greca costruita dai Crociati, scolpita da veneziani, francesi e turchi, nel cui piccolo museo (un ex palazzo della Serenissima) si conservano vivaci statuette di dee e vasi ornati da polipi “naturalistici” dell’antica Micene: 2700 anni d’arte in pochi metri di rocce e stradine sul mare ellenico. Ovviamente, Shamir, in viaggi di vacanza mediterranea, ha visto i mosaici d’oro di Santa Sofia a Istanbul, Raffaello e Michelangelo a Roma, Pompei, i musei spagnoli, le vetrate gotiche francesi. E scoperto – con il suo sguardo nuovo – due cose. Che l’arte vera, quella che “innalza il cuore”, è sempre stata “figurativa”, ossia mai astratta: vi si vedono le figure di Cristo, della Vergine (o di Afrodite in Grecia, o in Asia di Buddha). Che la grande arte era «unita indissolubilmente al tempio e alla chiesa; si tratta di una forma squisita di venerazione, che proclama l’affinità fra Dio e l’Uomo». Che «la sacralità in Europa è inevitabilmente cristiana». Anzi Israel giunge a concludere che «non c’è arte figurativa fuori di Dio». E del Dio cristiano: parlo, dice, «non del gentile rabbi Gesù», ma «del Dio che morì sulla Croce».
È una testimonianza cui dobbiamo essere grati a Israel Shamir, perché è doppiamente difficile per un ebreo (ma non vi avevo detto che è uno spirito libero?). Anzitutto perché, come dice lui stesso, «condizionati a rifiutare le immagini come idolatria» da sempre, gli ebrei «per secoli non sono entrati in chiese né hanno visto dipinti». Non hanno “l’occhio” per quelle che si dicevano “le belle arti” (altro discorso varrebbe per la musica). Fino ai giorni nostri gli ebrei non hanno avuto pittori né scultori (e le due eccezioni, dice Shamir, «Chagall e Modigliani, abbracciarono Cristo; Chagall dipinse le vetrate di Chartres»). Ma ancor più a fondo – dice lui – per «il rifiuto di Cristo, che è la maggior fonte di creatività» nell’arte europea.
Ma c’è di più. Israel Shamir (chi volesse conoscere i suoi scritti può visitare il sito personale http://www.israelshamir.net/), russo da poco mediterraneo, ha visitato in Europa anche i musei d’arte contemporanea, “non figurativa”, “informale”, o “concettuale” come si dice in America. Al museo Guggenheim di Bilbao in Spagna ha visto «quindici tonnellate di lamiera ondulata» presentata da un “artista di New York”, «una grande stanza piena di schermi tv che mostrano un vuoto senza fine», capolavoro di un artista giapponese. Al museo di Amsterdam «ho visto una collezione di quarti di maiale decomposti in formalina», di cui uno «acquistato da un collezionista americano per 50 mila dollari». Nella (ex) chiesa di San Nicola a Copenhagen (oggi museo) ha visto, «anziché immagini della Madonna, che i bravi protestanti bandirono a suo tempo dalle chiese, grandi foto di una vecchia nuda, di genitali femminili, di atti omosessuali». E – contrariamente a noi, che ci siamo tristemente abituati a queste forme “d’arte” – se ne indigna. Quelle esposizioni, dice, «recano un doppio messaggio: che la chiesa deve essere profanata insieme all’arte. Ed è un doppio successo, infatti: le chiese di Amsterdam e Copenhagen sono vuote, e i loro artisti producono spazzatura».
Ciò che Israel vede nella disfatta dell’ “arte contemporanea” astratta, non-figurativa, concettuale, è «il sintomo del collasso della civiltà» europea, il disprezzo dell’uomo (non più “immagine di Dio”) in un mondo dominato, secondo Shamir, da “Mammona” e dai “Mammoniti”, i mercanti d’arte. Un tempo, «l’arte era prodotta per la Chiesa e il tempio, che non erano “clienti” nel senso in cui una banca oggi commissiona un’opera a un artista contemporaneo». Oggi, gli artisti producono su commissione dei galleristi, dei curatori di musei, di critici legati al mercato (e alle sue speculazioni). Per costoro, il discorso sull’arte si riduce, in fondo, al “prezzo” delle opere. Tanto varrebbe, dice sarcastico Shamir, organizzare mostre “minimaliste” dove si espongano al pubblico «le due più essenziali caratteristiche» dell’arte d’oggi, «il cartellino del prezzo e il nome del proprietario» dell’opera.
C’è rimedio? Shamir si prova a proporne uno: togliere le antiche opere figurative ai musei e rimetterle al loro posto, quello per cui nacquero: nelle chiese. «Non voglio togliere niente al museo Guggenheim: si tenga tutti i quarti di maiale in formaldeide che desidera ». Così, spera, forse, «tornerebbero visitatori nelle chiese, e la fonte della fede potrebbe di nuovo eruttare creatività».
Forse purtroppo no, Shamir. Forse il male di cui lo schifo “artistico” contemporaneo è un sintomo, è più profondo e meno rimediabile.
Ma grazie per questa testimonianza. Sono sempre stato convinto che, segno della Sua fedeltà all’Alleanza con il popolo eletto, Dio non abbia mai fatto mancare ad ogni generazione di ebrei un profeta, uno che “parla per Lui” e dice la verità più scomoda. Sospetto che Israel Shamir, nato a Leningrado, sia uno di questi.

BIBLIOGRAFIA

Timothy Verdon, Vedere il mistero, Mondadori 2003.
Giacomo Grasso, Chiesa e Arte, San Paolo 2001.
Pierluigi Lia, Dire Dio con arte, Ancora 2003.

IL TIMONE – N. 31 – ANNO VI – Marzo 2004 – pag. 16 -17

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