Cattolico, non ebbe il coraggio del martirio nell’Inghilterra anglicana. Eppure protestò contro un potere pubblico che violentò le coscienze, togliendo loro la speranza dell’aldilà. Nell’Amleto.
“Io ebbi la mia prima educazione tra uomini di una religione afflitta e oppressa, usi al disprezzo della morte e affamati di un immaginario martirio”. La religione cui allude il grande poeta inglese John Donne (1572-1631) è la cattolica. Lo fa nel 1610 in Pseudo-Martyr, uno scritto che la Corte applaudì come “antipapista”, ma in cui Donne sosteneva che i cattolici inglesi, se facevano giuramento di lealtà al re, non venivano meno alla loro lealtà a Roma. Un libello dolorosamente ambiguo, con cui Donne capitolava. Ancora tre anni prima aveva rifiutato di farsi apostata ma, dopo una vita di miseria ed emarginazione, vedovo con nove figli, cedeva alle pressioni del re Giacomo, aprendosi con quello scritto la carriera di Cappellano reale e predicatore della religione di stato, l’anglicana.
Nella “libera” Inghilterra di Enrico VIII e di Elisabetta prima, la persecuzione anticattolica ebbe una ferocia sistematica, quasi sovietica. Il fratello di Donne andò in carcere per aver nascosto un prete, e vi morì. Era la sua una generazione cresciuta nei terrori della clandestinità. Bambini svegliati di notte perché un giovane pallido, venuto dalla Francia, stava vestendo i paramenti sacri nello studio paterno preparandosi a celebrare la Messa proibita; bambini che assistettero ad esecuzioni di parenti; preparati dai genitori ad un “immaginario martirio” che era fin troppo probabile. L’Inghilterra mise a morte 70 mila cattolici. Alti aristocratici, fino ad allora frivoli cortigiani, furono capaci di britannico eroismo, come il conte di Arundel, San Filippo Howard. Il brillante Edmund Campion, delizia della Corte, si fece sacerdote “perché l’Inghilterra non restasse senza il Sacrificio”, votandosi consapevolmente al patibolo.
I più professarono in segreto, circondati dal sospetto dei vicini, nel timore di delazioni. Un secolo dopo la morte di William Shakespeare, nella sua casa, fu trovata nascosta tra le travi del soffitto una professione di fede firmata dal padre del commediografo, John: era un testo che San Carlo Borromeo aveva preparato apposta per gli europei che resistevano alla persecuzione protestante nei loro Paesi, e diffuso da gesuiti itineranti. Il fedele segreto lo firmava e doveva pronunciarlo in punto di morte, davanti a testimoni, per morire da cristiano. Si sa che il padre di William non partecipò mai alle funzioni anglicane, accampando scuse; i vicini sospettavano l’intera famiglia di essere “papista”.
Sul cripto-cattolicesimo di William Shakespeare s’è scritto molto, e in modo non conclusivo. Ma appartenne alla stessa generazione di John Donne, quella che, senza il coraggio del martirio, visse con l’anima spezzata. Lacerazione spirituale e politica: il tormento di mancare di lealtà civile e l’incubo della dannazione eterna. In Inghilterra il protestantesimo non fu, come in Germania, un moto popolare: era calato dall’alto, per ordine di stato. L’apostasia veniva sentita, da un popolo ancora medievale e placidamente cattolico, “come se fosse il giorno del giudizio finale” (Amleto, atto III, scena IV).
Fatti apocalittici sconvolgevano l’Inghilterra, quasi retribuzione dell’apostasia. Una generazione vide sparire due dinastie, i Tudor e gli Stuart, in climi da tragedia greca. In Shakespeare ricorre come un incubo (in Amleto e nel Riccardo Terzo) il caso di una regina che sposa in nozze impure l’assassino del suo re e primo sposo. Era un fatto reale: Maria Stuart aveva risposato nel 1566 il conte di Botswell, che solo tre mesi prima aveva ammazzato suo marito, Lord Darnley. Maria era cattolica e morì da cattolica, ma non era una santa: e quel matrimonio ripugnante certo indebolì la risolutezza di molti fedeli. La nemica di Maria, Elisabetta, che si fece chiamare (per propaganda) la Regina Vergine, morì resa demente dai rimorsi per aver fatto decapitare il duca di Essex, suo favorito, di trent’anni più giovane di lei: la voce popolare diceva che era suo figlio. Essex aveva capeggiato una misteriosa rivolta cattolica, subito fallita, forse per rivendicare il suo diritto alla successione.
“Qui si spezza un nobile cuore”, disse il duca di Essex alla sentenza di morte. La stessa frase pronuncia Orazio, il fedele amico, sul morente Amleto, altro principe che non può essere re.
Senza sapere questo clima di persecuzione e di orrore, Amleto resta un enigma. Ma il pubblico di Shakespeare intendeva al volo l’attore che impersonava il luttuoso principe danese, quando proclamava: “C’è del marcio in Danimarca”, o ancor più precisamente ad Ofelia: “La Danimarca è un carcere”. L’allusione reticente, salvezza nei tempi sovietici, era già nota allora.
Amleto lotta contro una misteriosa insurrezione interiore, deve fingersi pazzo in un regime in cui non si può dire la verità; fra il pubblico, molti dovevano riconoscervi la propria lacerante esperienza intima. Rileggete il celebre monologo “essere o non essere”: “Se sia più nobile tollerare gli oltraggi… o impugnare le armi contro un mare di dolori e, affrontandoli, finirli? […] Chi sopporterebbe gli oltraggi degli oppressori, le contumelie dei superbi, le cabale della legge, l’insolenza dei governanti, i vilipendi che il merito paziente soffre dall’abbietta ignoranza, quando un ferro basterebbe per darsi quiete? Così la coscienza ci rende codardi…”.
Tutto diventa chiaro, se si intendono queste parole come una protesta disperata contro un potere pubblico che ha spezzato le coscienze, togliendo loro la speranza persino dell’aldilà. E’ a suo modo la professione, reticente e lancinante, di una fede “oppressa ed afflitta”, da parte di un grande inglese che non ebbe il coraggio del martirio. Shakespeare, nostro fratello.
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 56 – 57