«Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2,6) ma ci ha reso «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4).
Tramite questa misteriosa partecipazione Cristo ci salva. Salvarci significa ridarci la vita, la vita vera, quella che abbiamo perso. Noi non sappiamo ciò che abbiamo perso, perché non riusciamo né a vederlo né a immaginarlo. Sarebbe come chiedere a un cieco di immaginare i colori, o a un sordo di immaginare la musica. Prima dell’incontro con la Grazia, siamo come in uno stato di sonno, se non addirittura di “morte”. Abbiamo ugualmente l’anima, ma è nel torpore, come addormentata, ma non addormentata nei sensi, o nella ragione, e nemmeno nei sentimenti o nelle emozioni, ma nella vera percezione di sé e del proprio senso: ci sfugge il fine della vita, e vediamo il mondo solo in modo autoriferito. Anche gli altri non cogliamo nel loro vero sé, nel loro rapporto con Dio, ma sono come ombre, spesso perfino finalizzate a noi stessi, qualcosa da cui attendo di ricevere, o perfino di prendere, realtà da rapire o da derubare. Non avvertiamo la distanza fra loro e Dio, e non ci poniamo nell’ottica di colmarla.
Quando invece Cristo ci raccoglie da terra e ci innesta come rami nel suo albero della Vita, la linfa divina di questo albero ci ridà la vera vita, e trasforma il nostro legno secco in legno vivo: «Io sono la vite, voi siete i tralci» (Gv 15,5). Il tralcio innestato nella vite ne è di nuovo trasformato, acquisisce vita, germoglia, comprende finalmente cosa significhi vivere. Non solo, ma è destinato a dare frutto: «Chi rimane in me, ed io in lui, dà molto frutto» (Gv 15,5). I suoi frutti sono la somiglianza restituita e il dono di essa al prossimo: «A tutti quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12s).
Il legno staccato dalla vite non è in grado di amare, ama solo se stesso, ma tornando partecipe della vita divina finalmente si vede nella sua vera immagine e vede anche gli altri secondo la loro vera appartenenza. Per questo non può che amarli e donarsi ad essi, e donandosi ad essi prolunga verso di loro la vita della vite e compartecipa della loro salvezza: «Vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19). Ecco il secondo frutto della vite attraverso di noi: dopo aver fruttificato noi, far fruttificare gli altri. Anche quest’ultima è in realtà opera di Dio, ma compiuta attraverso di noi per via di quella mistica partecipazione alla vita divina di cui parla Pietro (2Pt 1,4). Spiega il Catechismo: «Per mezzo della potenza dello Spirito Santo, noi prendiamo parte alla passione di Cristo morendo al peccato, e alla sua risurrezione nascendo a una vita nuova; siamo membra del suo corpo che è la Chiesa, tralci innestati sulla Vite che è lui stesso» (CCC 1988).
La Chiesa è il terreno in cui cresce la vite di Cristo di cui tutti noi siamo i tralci. Anzi, la Chiesa è l’espandersi nel mondo di questa stessa Vite. E non c’è paragone tra un’esistenza vissuta fuori dalla vite e un’esistenza vissuta dentro di essa. La Grazia che ne riceviamo effettivamente ci divinizza. Come scriveva Sant’Atanasio d’Alessandria: «Per mezzo dello Spirito, tutti noi siamo detti partecipi di Dio. […] Entriamo a far parte della natura divina mediante la partecipazione allo Spirito […]. Ecco perché lo Spirito divinizza coloro nei quali si fa presente» (Epistula ad Serapionem, 1, 24). È una vita a trecentosessanta gradi, con tutti i suoi colori e le sue melodie, ma soprattutto è una vita non più fine a se stessa, ma piena di senso, posseduta, connessa con la realtà dell’intero mondo che ci circonda, allineata verso la sua meta eterna di cui gode già la luce. Tutto questo è dono della grazia riservato a chi torna nella vite. «La grazia di Cristo è il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo per guarirla dal peccato e santificarla. È la grazia santificante o deificante, ricevuta nel Battesimo. Essa è in noi la sorgente dell’opera di santificazione» (CCC 1999).
A questo punto, cos’altro si potrebbe desiderare? Preferiamo un’esistenza ridotta alle semplici funzioni di mantenimento in cui si passa il tempo semplicemente a spostare cose o corpi, o preferiamo vivere secondo la pienezza delle nostre potenzialità umane e spirituali, attraversati dalla linfa dell’amore celeste, che ci lascia intendere i suoni del creato e ci conduce in luoghi da cui si contemplano cose altissime?
IL TIMONE N. 127 – ANNO XV – Novembre 2013 – pag. 61
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