«C’è chi teme l’Impero e chi spera nel suo mercato, ma nessuno si preoccupa dei cinesi, cosa pensano e quali bisogni hanno». «Il rispetto dei diritti umani fa bene anche agli affari. Gli americani lo hanno capito e mettono condizioni agli accordi commerciali».
Qual è allora la situazione dei cinesi?
Il Paese ha vissuto in pochi anni una grande trasformazione: da “tutti poveri” si è passati a una divisione netta tra ricchi e poveri (la grande maggioranza della popolazione). E oggi per i poveri va anche peggio: sono sfruttati nel lavoro e mancano totalmente gli ammortizzatori sociali; scuola e sanità, tanto per fare un esempio, non sono più gratuite. E come non bastasse la riconversione delle grandi industrie ha creato un enorme esercito di disoccupati, 170 milioni di cinesi, che non hanno proprio nulla. Dallo Stato ricevono appena 30 yuan al mese, che bastano appena a comprare il riso. A questi vanno aggiunti almeno 300 milioni di contadini che vivono con un dollaro al giorno. Ai bisogni materiali si devono aggiungere poi le altre necessità, sempre più pressanti: libertà di parola, libertà di esprimersi, libertà di religione. Ma nessuno li ascolta, né il governo cinese né l’Occidente.
Però non si può negare che soprattutto gli Usa abbiano chiesto più volte e con forza il rispetto dei diritti umani.
E’ vero che gli Stati Uniti qualcosa in questi anni lo hanno ottenuto, ma io sono d’accordo con l’arcivescovo di Hong Kong, Joseph Zen, quando dice che l’Occidente è stato vile: tira fuori la carta dei diritti umani solo come forma di pressione per ottenere vantaggi economici, non in nome dei diritti umani. E questo lo ha imparato anche il governo cinese: in prossimità di incontri importanti, sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale, libera qualche dissidente, ma poi le cose continuano come prima. Eppure deve essere chiaro che la Cina è un gigante dai piedi d’argilla, e lo devono capire anche i grandi industriali: se continuano a ignorare il popolo cinese, avranno dei nemici all’interno della Cina e comunque rischiano di agevolare la deflagrazione del Paese, con la perdita anche dei propri investimenti. I sociologi dell’Accademia delle Scienze di Pechino dicono che entro 10 anni si rischia una rivolta sociale tale da far impallidire il ricordo di Piazza Tienanmen.
Cosa si dovrebbe fare allora?
Imporre agli investimenti che si fanno alcune condizioni che incidano sulla qualità della vita dei lavoratori cinesi, così come stanno già facendo alcune industrie americane. Questo è nell’interesse di tutti: lavoratori, governo cinese e anche occidentali che investono.
Bisogna essere in una posizione di forza per imporre certe condizioni.
Checché se ne dica, la Cina ha drammaticamente bisogno di capitali stranieri. Ripeto: dietro alla facciata del grande sviluppo c’è una realtà estremamente fragile, basti pensare che tutto il sistema finanziario è in situazioni disastrose, le banche sono esposte per cifre che qui in Italia significherebbero la bancarotta.
In tutto questo qual è la condizione dei cattolici cinesi?
La persecuzione si è ulteriormente rafforzata: c’è una recrudescenza di arresti tra i fedeli della Chiesa sotterranea e un controllo sempre più serrato sulla Chiesa ufficiale. Tuttora ci sono in prigione una sessantina tra vescovi e sacerdoti.
Perché questo inasprimento?
Il regime ha sempre cercato di dividere la Chiesa per eliminarla, ma gli ultimi anni hanno visto invece crescere da una parte l’unità tra cattolici sotterranei e cattolici patriottici (ormai l’80% dei vescovi patriottici ha chiesto il riconoscimento al Papa) e dall’altra anche le conversioni.
Potrebbe essere un esempio anche per noi.
E’ davvero curioso che mentre in Europa si cerca di nascondere le radici cristiane, diversi intellettuali cinesi sostengano che solo il cristianesimo può salvare la Cina.
Addirittura. E perché?
Perché è l’unica religione che fa emergere il senso della persona, baluardo contro l’invasione dello Stato, ma legata alla responsabilità verso la comunità.
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