In Indonesia, il più grande Paese islamico del mondo, tre cattolici innocenti sono stati barbaramente assassinati dopo un processo sommario. Sui loro corpi sono visibili segni di crudeltà. Non hanno potuto nemmeno assistere alla loro ultima Messa. Denuncia alla Corte penale internazionale di Ginevra.
Siamo innocenti. Si tratta di un complotto politico per coprire i nomi di coloro che abbiamo denunciato come i reali colpevoli delle violenze di cui ci accusano. Per anni abbiamo cercato di far emergere la verità, ma siamo stati messi a tacere». Sono state queste le ultime dichiarazioni pubbliche rese da Fabianus Tibo, 60 anni, Marinus Riwu, 48, e Dominggus da Silva, 42, i tre cattolici indonesiani fatti fucilare dalle autorità del più popoloso Paese islamico del mondo la notte tra il 21 e il 22 settembre, perché ritenuti responsabili di un massacro di musulmani avvenuto durante gli scontri interreligiosi di Poso nel 2000, sull’isola di Sulawesi. Non è da escludere in effetti che l’accusa ai tre cristiani sia proprio legata a una loro pregressa denuncia contro alcuni ufficiali governativi, sospettati di essere coinvolti nei violenti scontri che hanno mietuto migliaia di vittime.
I tre imputati si sono sempre dichiarati, assistiti dai loro legali, assolutamente innocenti, forti del fatto che durante il processo non sono emerse prove che attestino con certezza una qualche loro responsabilità. Da parte di molti esperti e Organizzazioni non governative, non c’è dubbio che costoro non potessero essere «mandanti» di alcuna carneficina. La stessa Amnesty International ha fatto sapere come «i tre uomini non abbiano beneficiato di un processo equo».
Ora quella barbara esecuzione, quella sentenza di morte affrettata, sommaria e ingiusta, che non è stata fermata neppure dai numerosi appelli per la grazia espressi dal Papa e da tante istituzioni politiche e organizzazioni umanitarie (atto di clemenza sempre respinto dal presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono), avrà un seguito. Infatti uno degli avvocati del collegio di difesa, Alexius M. Adu, sostiene di poter documentare che la fucilazione dei tre è stata un «omicidio di Stato», deciso dal governo di Giakarta, che ha agito contro la legge e violando i diritti umani degli accusati. Ai quali, con un inumano e inconcepibile rifiuto, non sono stati concessi i funerali religiosi nella cattedrale di St. Mary ma neppure, nelle loro ultime ore di vita, l’assistenza spirituale, da loro richiesta, di padre Jimmy Tumbelaka, il sacerdote che li aveva seguiti nel carcere di Petobo, e la possibilità di partecipare a un’ultima Messa.
Per queste ragioni, i familiari dei tre fucilati hanno dato inca-rico agli avvocati di portare il caso davanti alla Corte penale internazionale di Ginevra, denunciando lo Stato indonesiano per «aver agito in modo tendenzioso contro cittadini innocenti, le cui vite avrebbero dovuto, invece, essere protette». Il processo che ha giudicato colpevoli i tre è stato considerato da più parti influenzato dalle forti pressioni dei fondamentalisti islamici, da smaccati tentativi di corruzione e da procedure illegali, perché non si è tenuto conto di prove e testimonianze a favore degli imputati. I tre giustiziati non erano certo dei leader, così come non erano affatto in grado di pianificare e organizzare massacri sistematici di musulmani. Erano semplici e poveri contadini, poco istruiti e inesperti, alle prese con le quotidiane difficoltà della vita. L’unico loro «difetto» era quello di essere di salda fede cattolica.
Ma c’è di più. I familiari dei tre giustiziati e i loro legali hanno chiesto di poter effettuare una seconda autopsia per verificare se Fabianus Tibo, Dominggus da Silva e Marinus Riwu siano stati vittime di violenze prima o dopo l’esecuzione. La polizia e le autorità giudiziarie negano ogni abuso, ma gli avvocati del Padma (un raggruppamento interreligioso di avvocati che ha difeso i tre accusati) denunciano la presenza, sui corpi, di lesioni che non corrispondono alla fucilazione. Gli indizi, riferiti da medici cristiani che hanno esaminato i cadaveri, sottolineano che Tibo ha due costole fratturate e cicatrici sul volto, mentre il cuore di da Silva è stato attraversato da qualcosa di simile a un pugnale. I tre hanno anche segni di cinque spari sul lato sinistro del petto, anziché di uno solo. Per questo sarà necessaria l’esumazione di Tibo e Riwu, sepolti rispettivamente a Beteleme e a Morowali. Dovrà essere riesaminato anche il corpo di da Silva, che riposa nell’isola di Flores. Era stato sepolto dalle autorità a Palu; è tornato a casa dopo le ferme richieste dei suoi familiari, ai quali alla fine è stato riconsegnato il corpo.
Nella loro richiesta i familiari sono stati sostenuti dalla Commissione dell’Onu per i Diritti Umani e dall’Unione Europea. Il fatto che il procuratore di Palu abbia voluto seppellire in tutta fretta Tibo e i suoi compagni, senza nemmeno autorizzare i funerali religiosi, dà maggiore credibilità all’ipotesi che la fucilazione non si sia svolta secondo procedure legali.
«Non ci saremmo mai aspettati una cosa simile; ora bisogna fare chiarezza: potremmo essere di fronte a violazioni non solo della legge nazionale, che regola le fucilazioni, ma anche della legge internazionale», ha dichiarato Stephen Roy Rening, uno degli avvocati del Padma. «Non avendo più fiducia nel sistema giudiziario indonesiano, non ci resta che denunciare il caso agli organi internazionali di competenza», ha concluso.
L’Indonesia, che sulla carta è uno «Stato laico di fede musulmana», è sempre più vittima delle pressioni dell’Islam fondamentalista, con evidenti ripercussioni nell’ambito politico-istituzionale, dal momento che stanno proliferando i gruppi radicali, che minano le basi del dialogo e della pace proponendo l’imposizione della Sharia, la legge coranica. Tutto ciò va a innestarsi sul tronco delle persecuzioni che i cristiani subiscono quasi quotidianamente nei Paesi islamici, e dell’ignavia dell’Occidente, dimentico della grandezza e universalità delle sue radici cristiane. Solo la libertà religiosa, la centralità della persona umana, la sacralità della vita e una sana laicità a livello di rapporti tra Stato e confessioni religiose possono essere alla base del dialogo interreligioso e di una pacifica convivenza. L’Islam di oggi è chiamato a misurarsi con queste sfide.
La persecuzione contro i cristiani non risparmia neppure i protestanti. A metà ottobre il pastore Irianto Kongkoli, 40 anni, segretario generale della Comunione delle chiese indonesiane per le isole Sulawesi, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un killer sconosciuto. Irianto Kongkoli era tra coloro che si erano prodigati in difesa dei tre fedeli cattolici giustiziati.
Ai tre «martiri» fucilati, al pastore protestante freddato a bruciapelo, ai loro parenti e alla comunità cristiana dell’Indonesia, vanno la solidarietà, il cordoglio e la vicinanza umana e spirituale della redazione e dei lettori del Timone.
RICORDA
«Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Bea-ti voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»
(Mt 5,10-12).
IL TIMONE – N. 57 – ANNO VIII – Novembre 2006 – pag. 18 – 19