Idratazione e alimentazione artificiale non sono terapie, ma cure doverose.
Ecco perché la loro sospensione configura un vero e proprio omicidio. Lo confermano il laico Comitato nazionale di bioetica e il Magistero della Chiesa.
Il caso di Terry Schiavo
In paziente in stato vegetativo (SV) è una persona che – almeno dal nostro punto di vista – ha perso coscienza di sé e consapevolezza dell’ambiente: non parla, non comunica in maniera convenzionale, sembra chiuso in un mondo a sé anche se instaura una personale forma di dialogo con chi lo assiste. Inoltre, ha funzioni vitali normali, sorride e piange, alterna momenti di sonno a fasi di veglia, respira autonomamente e in taluni casi viene perfino nutrito in maniera tradizionale. In genere, però, si ricorre alla cosiddetta alimentazione e idratazione artificiale. I fautori della “buona morte” sostengono che, in simili casi, continuare a dare cibo e liquidi costituisce una forma di accanimento terapeutico. Dunque, una cura inutile e dispendiosa che andrebbe interrotta, lasciando morire di inedia il paziente, soprattutto quando si pensa che questa sarebbe la sua volontà. Per supportare questa istanza – gravida di implicazioni etiche e giuridiche – vengono spesso utilizzati alcuni casi pietosi che servono a muovere a compassione l’opinione pubblica, per convincerla che una simile condizione “non è vita”. Molti ricorderanno la vicenda della povera Terry Schiavo, la donna in stato vegetativo che negli Stati Uniti nella primavera del 2005 venne letteralmente fatta agonizzare privandola di acqua e cibo per volontà del marito – che affermava di attuare la volontà espressa anni prima dalla consorte – ma contro il parere dei genitori di Terry. In Italia ritorna spesso alla ribalta il caso di Eluana Englaro, una ragazza di Lecco che è in stato vegetativo da anni: il padre si batte perché un giudice lo autorizzi a sospendere alimentazione e idratazione per provocare la morte della figlia, ma finora i tribunali italiani gli hanno sempre dato torto.
Le obiezioni alla “compagnia della buona morte”
Come si può ribattere a coloro che vorrebbero legalizzare l’uccisione dei pazienti di stato vegetativo? Si devono opporre almeno quattro considerazioni.
a. In primo luogo, come ha rilevato lo stesso Comitato nazionale per la bioetica, l’idratazione e l’alimentazione non rappresentano un trattamento medico. Esso è piuttosto una cura, che fa parte dell’attenzione dovuta ai bisogni elementari del paziente. Di solito, sono proprio i familiari a seguire amorevolmente, per lungo tempo e con grande sacrificio personale, persone in queste condizioni, garantendo nella propria abitazione l’erogazione del cibo e dell’acqua necessari alla sopravvivenza.
b. Il paziente in stato vegetativo non è un malato terminale: non è prossimo al decesso e continuerà a vivere se sarà assistito normalmente e aiutato a rifornirsi di cibo e di acqua. Questi malati hanno una sopravvivenza media fra i 2 e i 5 anni, raramente oltre i 10.
c. Non esistono certezze sulla irreversibilità di questo stato: in medicina alcuni tendono a distinguere stati vegetativi persistenti da quelli permanenti, indicando con questa ultima parola le situazioni senza speranza di guarigione. Ma questa catalogazione è di tipo probabilistico, e non corrisponde mai a una certezza assoluta. Si tratta non di una diagnosi (che è certa) ma di una prognosi (opinabile per definizione). Lo dimostra bene il recente caso di Salvatore Crisafulli, un uomo di Catania che è rimasto in stato vegetativo per due anni, e al quale gli specialisti dell’ospedale di Innsbruck avevano diagnosticato “danni cerebrali gravi e irreversibili” a seguito di un incidente stradale. Oggi Salvatore ha ripreso conoscenza e sta bene. Ha anche raccontato: «Mentre ero in coma capivo e sentivo tutto, anche i medici che dicevano che io non ero cosciente». Del resto, nessuna condizione clinica può essere definita a priori “senza ritorno”, ad eccezione della morte.
d. Vi sarebbe molto da ridire perfino sulla definizione terminologica di “stato vegetativo”, perché è a tutti chiaro che questa terminologia tende a espropriare l’uomo della sua dignità di persona umana e perfino di appartenente al regno animale. Quasi si trattasse di una pianta o di un minerale. De-umanizzare il paziente è un “trucco” psicologico fondamentale per convincere l’opinione pubblica che si può fare a meno di alimentarlo.
Il giudizio del Magistero
È evidente che la Chiesa cattolica, nell’insegnare una verità oggettiva che vincola ogni uomo e ogni ordinamento giuridico in nome del bene comune, afferma la necessità di curare e accudire anche i malati in stato vegetativo persistente, assicurando loro innanzitutto l’alimentazione e l’idratazione. La Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona diffusa dalla Congregazione per la dottrina della fede il 5 maggio 1980 parla chiaro: è eutanasia non solo ogni azione ma anche qualsiasi omissione che sia attuata con lo scopo di provocare la morte del paziente.
Dunque, l’interruzione della somministrazione di acqua e cibo rientra fra le ipotesi di illecita soppressione della vita umana innocente.
Di più: si tratta di una forma di morte terribile, per nulla “buona”, se si considera che espone il paziente ad atroci sofferenze che si prolungano per diversi giorni. Nonostante la ragionevolezza di questa verità, si deve segnalare che non mancano, anche fra pensatori e bioeticisti cattolici, posizioni “aperturiste” circa la liceità dell’interruzione dell’alimentazione artificiale. Occorrerà dunque vigilare molto, anche all’interno del mondo cattolico, affinché non si affermino posizioni o atteggiamenti “dimissionari”, cioè propensi ad abbandonare al suo destino un paziente in stato vegetativo. Il quale deve essere invece vissuto come un’occasione provvidenziale che ci costringe a riscoprire il mistero del valore dell’uomo vivente – gloria di Dio, come dice sant’Ireneo – celato dietro l’apparente inespressività di un corpo segnato dalla malattia. Come ha detto Giovanni Paolo II, «un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un “vegetale” o un “animale”. Anche i nostri fratelli e sorelle che si trovano nella condizione clinica dello “stato vegetativo” conservano tutta intera la loro dignità umana.
Lo sguardo amorevole di Dio Padre continua a posarsi su di loro, riconoscendoli come figli suoi particolarmente bisognosi di assistenza.
Verso queste persone, medici e operatori sanitari, società e Chiesa hanno doveri morali dai quali non possono esimersi, senza venir meno alle esigenze sia della deontologia professionale che della solidarietà umana e cristiana».
Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione Iura et bona de euthanasia, 5 maggio 1980.
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale su “I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici”, Roma, 20 marzo 2004.
Gian Luigi Gigli, Lo stato vegetativo “permanente”, in Medicina e morale, n. 2002/2, p. 207-228.
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