È singolare che l’unico uomo ricordato nel Credo, l’unico contemporaneo di Gesù il cui nome è ricordato nella nostra Professione di Fede, sia una persona che fede non ne ebbe; un uomo che anzi «se ne lavò le mani». E paradossalmente proprio costui ebbe il suo nome scolpito per sempre nell’eterno Simbolo dei cristiani. Non Pietro, non Giovanni o un altro degli apostoli; ma lui, Ponzio Pilato, lui che non credette, che non seppe riconoscere la Luce, e che anzi ordinò la morte del Figlio di Dio quando questo gli comparì dinanzi. Eppure inchiodando il Cristo, inchiodò per sempre il proprio nome al mistero della salvezza.
Ordinò la morte di chi gli offriva in dono la vita, ma uccidendolo, lo vide morire anche per lui. Pilato rappresenta in fondo l’umanità tutta; non è più solo il procuratore romano della Giudea: ciò che egli compie, è in lui compiuto da tutta l’umanità peccatrice. Pilato rappresenta anche la storia, la dimensione del tempo, dentro la quale s’incarna il mistero della Croce. L’orizzontale che viene attraversato dalla verticalità di Dio.
Il nome di Pilato inserito nel Credo indica che l’eternità di Dio c’incontra in un “qui” e in un “ora” che è quello della nostra vita terrena, e che ci salva nella concretezza del nostro tempo. La sua redenzione incontra il nostro volto, il nostro nome, in modo del tutto personale ed unico.
Ma Pilato, oltre a rappresentare la nostra umanità che crocifigge continuamente il Cristo, rappresenta anche il Male, il male metafisico che agisce nella storia, che s’insinua come un serpente nei poteri del mondo. Appare come un potere assoluto e incontrastato, ma in realtà agisce all’interno di un disegno più alto, di cui non si avvede, scritto da qualcuno che ha vinto il mondo. Un disegno che schiaccia la testa
di questo serpente e rende il Cristo vittorioso. Se quello di Pilato è l’unico nome d’uomo che appare nel Credo, poco più sopra vi è quello di una Donna: Maria, la Donna sopra il serpente. Il nome di Pilato è, nel Simbolo, legato al verbo morire; quello di Maria è legato al verbo nascere. Il Credo dipinge davanti ai nostri occhi tutto il quadro della vita e della morte, il mistero del bene e del male. Tra il nome di
Maria e quello di Pilato c’è quel «farsi uomo» che racchiude tutto il mistero. C’è quell’Uomo generato da Lei e che in Lei schiaccia il serpente. Ecco, questa è la vera icona del rapporto bene-male. A volte trattiamo bene e male come se fossero due realtà complementari con lo stesso peso. Ci capita perfino di udire: «Senza il bene non ci sarebbe il male, e senza il male non ci sarebbe il bene». Ma questa è la più grande sciocchezza: come se tra male e bene vi fosse un rapporto di causa. Dire «senza il bene non ci sarebbe il male» insinua l’idea che il male sia in qualche modo causato dal bene. La fede cristiana invece c’insegna che il Bene, come assoluto morale, coincide con Dio, e Dio (che nella sua perfezione è privo d’ogni contraddizione) non può essere causa di male. Il male non è realtà uguale e contrapposta al bene, ma sua assenza. L’evangelista Giovanni spiega in modo esemplare che il rapporto male-bene è come il rapporto tenebre-luce. Le tenebre non sono altro che assenza di luce, e non esistono a causa della luce, ma semmai è
vero il contrario: se la luce non c’è, vi è tenebra. Allo stesso modo è pure falsa l’opposta affermazione: «senza il male non vi sarebbe il bene». Senza il male staremmo meglio tutti! Non ho bisogno di uno schiaffo per apprezzare una carezza, o di una pugnalata per apprezzare la vita, o di un aborto per apprezzare una nascita. Il male in realtà è solo serpente schiacciato, poltiglia inconsistente. Mentre il bene ha carattere d’infinitudine e d’eternità, il male non può vantarsi nemmeno del verbo essere, in quanto la sua vera natura, ci dice il Vangelo, è assenza; mancanza d’essere. Chi sceglie il male perde pure quello che ha, perde se stesso, la propria vita; sceglie la dannazione del non-essere. Chi invece cammina sulla via del Bene, cammina nella totalità, gode già di tutto l’esistente, non si perde nulla. Non vi è obbiettivo che non possa essere raggiunto (e meno dolorosamente) tramite la santificazione nel Bene.
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 61