Figura di rilievo del III secolo, afferma con decisione il primato della sede di Roma sugli altri patriarcati. Per difendere la propria autorità e autonomia si scontra con Cipriano, vescovo di Cartagine.
Nei primi anni di vita il papato tenta di affermare la propria centralità e preminenza sulle altre sedi patriarcali, seguendo la precisa volontà di Cristo che affida a Pietro la guida della Chiesa, come riportato nel vangelo di Matteo al capitolo 16: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».
Nel III secolo la cristianità, pur avendo la consapevolezza di far parte dell’unico corpo mistico di Gesù Cristo, è ancora un complesso di singole comunità il cui capo è il vescovo-monarca. Ma sempre più spesso emerge l’esigenza di individuare un’entità super partes che intervenga legiferando con autorità per risolvere autorevolmente le numerose controversie che sorgono tra le varie diocesi in materia dottrinale, liturgica e disciplinare.
Stefano I (254-257) coglie in profondità questa richiesta fondando la supremazia petrina direttamente sulle parole di Gesù, ben conscio della particolare dignità della sede romana e del fatto che il primato di Pietro debba tramandarsi ai successori giacché «le porte degli inferi non preverranno su di essa», ovvero che la Chiesa non sarà mai distrutta.
Le notizie sulle origini di Stefano sono molto frammentarie. Probabilmente nasce a Roma, nobile membro della gens Julia.
È eletto papa il 12 maggio 254 nel cimitero di S. Callisto, in un periodo di tregua tra le dure persecuzioni dei cristiani dell’imperatore Decio (249-251) e in seguito, dopo un periodo benevolo verso i cristiani, dell’imperatore Valeriano (253-260).
La violenta e sanguinosa persecuzione di Decio inizia nel 250 con l’imposizione in tutto l’impero della religione pagana, durante la quale tra gli altri trovano la gloria del martirio papa Fabiano (236-250) e la vergine Agata a Catania.
Tutti i sudditi dell’impero sono interrogati sulla loro appartenenza religiosa: chi si dichiara cristiano e non abiura la propria fede offrendo sacrifici agli dei pagani viene ucciso, spesso dopo torture efferate, con l’accusa di “lesa maestà”, perché non riconoscendo il paganesimo non identifica l’Imperatore con Dio. La modalità dei supplizi varia dalla crocifissione al tormento delle belve fino alla decapitazione.
In questo clima molti cristiani apostatano la loro fede diventando libellatici, perché ottengono il documento chiamato libellus che comprova la sottomissione alla religione pagana, e traditori (dal latino tradere, consegnare, perché la sottomissione al paganesimo imponeva la consegna dei libri sacri ai persecutori).
Una volta affievolitasi la furia persecutoria, molti lapsi (letteralmente “coloro che sono caduti”), chiedono di poter rientrare nella Chiesa, pentiti per il loro gesto dovuto solo al timore delle torture e della morte.
Sorgono discussioni e contrasti tra chi persegue la linea dura e non accetta di farli rientrare nella comunità cristiana e chi invece è disposto a riaccoglierli nella pienezza della fede, pur esigendo una pubblica dichiarazione di pentimento.
Stefano sceglie la linea conciliante. Suo alleato è il vescovo di Cartagine Cipriano, la personalità più illustre della Chiesa occidentale del III secolo, mentre sul lato avverso si pone l’antipapa Novaziano, un sacerdote seguace della filosofia stoica, che persegue la linea rigorista spingendosi fino allo scisma.
Cipriano dà prova del pieno sostegno all’autorità del papa (identificandolo come l’unica autorità preposta a stabilire chi è in linea o meno con l’ortodossia cattolica) rivolgendosi a Stefano per soddisfare la richiesta di intervento del vescovo di Lione Faustino contro il vescovo di Arelate (Arles) Marciano, il quale rifiuta ostinatamente la riammissione dei lapsi nella sua comunità, secondo la linea novazianista, rifiutando i sacramenti anche in punto di morte.
Altra controversia nella quale Stefano fa valere il suo potere giurisdizionale ha luogo in Spagna.
Dùe vescovi spagnoli, Basilide e Marziale, sono dichiarati libellatici e quindi deposti da un concilio di vescovi spagnoli. Per contestare la sentenza Basilide, con una procedura precedentemente mai utilizzata, si reca direttamente a Roma per appellarsi al papa. Stefano lo riabilita insieme a Marziale, suscitando il malumore delle due comunità che reagiscono cercando appoggio presso Cipriano. Per contestare la decisione di Stefano, Cipriano convoca un sinodo a Cartagine nel 254 che imputa al papa solo degli errori formali, perché sarebbe stato informato in modo intenzionalmente erroneo da Basilide. Notiamo come il vescovo di Roma assume ed impone le proprie decisioni senza l’ausilio di un Concilio, diversamente da Cipriano il quale, dato la sua limitata autorità, deve avvalorare le proprie idee contrarie al capo della Chiesa con l’appoggio di altri pastori.
La terza importante questione che si presenta a Stefano è la più grave dal punto di vista teologico perché riguarda il battesimo impartito dagli eretici.
Già dal 200 il battesimo era considerato valido anche se ricevuto in una comunità eretica, in quanto l’efficacia del Sacramento non dipende dallo stato di grazia di chi lo amministra, ma dall’intenzione di compierlo in nome della SS. Trinità (dottrina tutt’ora in vigore). Per innestare il fedele nella comunità cristiana è considerata sufficiente l’imposizione delle mani invocando la discesa dello Spirito Santo.
Diversamente, in Africa, in Asia Minore e in Siria la prassi prevede la ripetizione del battesimo, pratica appoggiata sia dall’antipapa Novaziano sia da Cipriano (anche questa volta in contrasto con Stefano).
Stefano interviene in modo deciso, imponendo alle Chiese di uniformarsi alla tradizione seguita da Roma e di non introdurne altre. In modo sprezzante rifiuta di ricevere gli inviati di Cipriano con le risoluzioni dei due sinodi da lui convocati nel 255 e nel 256, minacciando di scomunicare le chiese Orientali che non seguono la dottrina “romana”.
Anche in questa vicenda il soglio di Pietro si erge con autorità a sede suprema con la quale è necessario rimanere in comunione per non allontanarsi dall’ortodossia della fede in Gesù Cristo. Lo stesso Cipriano, infatti, pur avendo un’opinione diversa, mai attacca frontalmente il primato del papa.
La controversia si risolve con il decesso sia di Stefano, il 2 agosto 257 in circostanze poco chiare ma che sembrano escludere il martirio, sia di Cipriano, ucciso l’anno successivo durante la persecuzione di Valeriano.
IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 54 – 55
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