Il Vangelo è alla radice dello sviluppo dell’uomo e dei popoli. Lo confermano sul campo i missionari: la povertà si vince educando il mondo a Gesù Cristo. Verità che molti cattolici, purtroppo, hanno dimenticato.
E marciano a rimorchio dell’utopia rivoluzionaria.
Negli ultimi mesi ho fatto una strana esperienza. In una cinquantina di conferenze sul tema “I cattolici e la sfida della globalizzazione” (sottotitolo del libro “Davide e Golia” scritto con Roberto Beretta di “Avvenire”, San Paolo), ho dato alla conversazione un’impostazione nuova, controcorrente. Invece di parlare anzitutto di commerci, finanze, materie prime, ecc. ho affermato, e documentato con esperienze dirette fra i poveri del mondo, che il Vangelo è alla radice dello sviluppo dell’uomo e dei popoli e produce sviluppo e promozione dell’uomo. Poi ho parlato anche di argomenti che tutti si attendono sulla globalizzazione: aiuti, tecnologie, ingiustizie nei commerci, debito estero, organismi dell’Onu, ecc.
Che la Parola di Dio (Bibbia e Vangelo) sia alla radice dello sviluppo non è un’idea facile da accettare. Mi son reso conto che nel cristiano comune, naturalmente figlio del nostro tempo, c’è quasi una schizofrenia mentale: da un lato la vita di fede, la preghiera, i Dieci Comandamenti, i sacramenti, la lettura del Vangelo, ecc.; dall’altro lo sviluppo economico, politico, sociale, la giustizia nei rapporti economici, ecc. Il primo aspetto riguarda la vita personale e la “salvezza dell’anima”; il secondo la vita pratica quotidiana e l’abisso tra popoli ricchi e poveri. Tra i due c’è separazione o scarsa connessione.
Invece i Papi dicono qualcosa di diverso: “Tra evangelizzazione e promozione umana, sviluppo, liberazione, ci sono dei legami profondi” (Evangelii nuntiandi, 31). “Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio, dal modello di Gesù Uomo-Dio, e deve portare a Dio. Ecco perchè tra annunzio evangelico e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione” (Redemptoris missio, 59). “Il miglior servizio al fratello è l’evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente” (Documenti di Puebla, 3760).
Sono abbastanza anziano e sulla breccia di questi temi da circa mezzo secolo, per poter dire che negli anni Cinquanta, quando si parlava di popoli poveri, venivano fuori soprattutto le cause culturali, i rapporti fra culture e religioni (si vedano i convegni di La Pira a Firenze sulla pace nel mondo dal 1952 in avanti); si parlava di educazione, si studiavano i “modelli di sviluppo” e, per noi cristiani, il Vangelo e l’esperienza dei missionarie delle giovani Chiese erano punti di riferimento importanti.
Poi, dagli anni Sessanta in avanti è cambiato tutto, credo soprattutto attraverso gli organismi dell’Onu e l’ondata di ricerche parcellizzate tecnico-scientifiche, che non hanno più avuto una visione umanistica dello sviluppo: ciascun specialista vede il suo frammento, nessuno o quasi vede più il quadro generale e le cause religioso-culturali. Così sono prevalse le due ideologie materialiste, liberaI-capitalista e marxista-rivoluzionaria, che rendono incomprensibile la radice dell’abisso che divide ricchi e poveri nel mondo, e quindi anche molto difficile dare una risposta adeguata. Ho l’impressione che il mondo cattolico italiano, lo dico con molta umiltà e senza giudicare nessuno, nel trattare il tema dello sviluppo dei popoli sia rimasto prigioniero di culture e visioni non cristiane. L’esempio più clamoroso è quello del G8 a Genova (luglio 2001), quando tra i contestatori agli Otto Grandi i cattolici erano il 60%. Ma è successo che entro la “zona rossa” gli Otto Grandi discutevano come aiutare i popoli poveri e parlavano quasi solo di soldi; ma all’esterno i manifestanti contestavano il G8 chiedendo anche loro quasi solo più soldi: Tobin tax, debito estero, aiuti economici allo sviluppo, prezzi materie prime e prezzi dei medicinali, ecc. Lo stesso “Manifesto delle Associazioni cattoliche ai leaders del G8” (firmato da una settantina di associazioni, istituti missionari, gruppi di volontari cattolici) non parlava minimamente di Gesù Cristo, di Vangelo, di missione della Chiesa e nemmeno dell’esperienza dei missionari che producono sviluppo educanda i popoli col Vangelo.
Sembra quasi, leggendo quel documento (l’ho riportato al termine del volume citato), che lo sviluppo dei popoli poveri venga principalmente dal denaro, dai commerci giusti tra ricchi e poveri, dai prezzi giusti delle materie prime. Mentre i missionari sul campo sanno bene che non è così.
Viviamo in una civiltà materialista che riduce tutto all’economico.
Giovanni Paolo II scrive: “Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica… La Chiesa educa le coscienze col Vangelo… forza liberante e fautrice di sviluppo… ” (Redemptoris Missio, 58).
Mi chiedo: quando si produrranno studi, si organizzeranno convegni, si faranno campagne di opinione pubblica, per approfondire e divulgare il tema “Vangelo e sviluppo dei popoli”?
Che valore hanno queste parole di Giovanni Paolo II: “La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale, ma dà il primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo” (Sollicitudo rei socialis, 41)?
È vuoto trionfalismo o corrisponde a realtà concretamente documentabili?
RICORDA
“L’anno scorso, la campagna contro il debito estero della Chiesa italiana diffondeva sussidi dove si parlava di soldi, di tassi d’interesse, di meccanismi finanziari per cui il debito cresceva, di soldi da raccogliere… Tutte cose buone e da conoscere, ma non si andava più in là. L’annunzio di Cristo (“il contributo più importante che la Chiesa dà all’urgente problema dello sviluppo” secondo il Papa), la missione della Chiesa, i missionari e le loro esperienze di educazione e di sviluppo ammirate da tutti, non erano nemmeno ricordati. Così, per un anno, in parrocchie, centri e gruppi missionari si sono fatti incontri, studi, dibattiti sui temi economici-finanziari-commerciali; si sono invitati esperti, acquistati libri, pubblicati volantini e manifesti sempre su questi temi… sembrava che, pagato il debito estero, l’Africa si sarebbe sviluppata. E l’appello ai giovani a donare al apropria vita a Cristo e ai fratelli africani? In quel quadro non esiste più, è dimenticato, è taciuto”.
(Piero Gheddo, in Piero Gheddo – Roberto Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, San Paolo, Cinisello Bal.mo 2002, p. 191).
BIBLIOGRAFIA
Paolo VI, Esortazione Apostolica, Evangeli nutiandi, 1975.
Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Sollecitudo rei socialis, 1997.
Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio, 1990.
Piero Gheddo – Roberto Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, San Paolo, Cinisello Bal.mo, 2002.
Piero Gheddo – Michele Brambilla, Nel nome del Padre. La conquista cristiana: sopruso o missione?, Bompiani, Milano 1992.
TIMONE N. 20 – ANNO IV – Luglio/Agosto 2002 – pag. 12 – 13