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12.12.2024

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Sviluppo, ecco come fare
31 Gennaio 2014

Sviluppo, ecco come fare

 

 

 
 
 
Molti credono che basti il denaro per risolvere il problema dello sviluppo dei popoli del Terzo Mondo. È falso. O si parte dall’educazione o si fallisce inevitabilmente.
L’esperienza dei missionari insegna.
 
 
 
«L’Africa mi annoia profondamente, spesso pagherei per non dover andare nel continente». Così Bob Geldof (“Corriere della Sera”, 2 febbraio 2005), negli anni Ottanta pioniere di concerti oceanici contro la fame nel mondo, organizzatore di Band Aid e di Live Aid. Nel 2004 era stato scelto dagli inglesi come il personaggio da nominare “Lord del popolo”, tanta era la sua passione per l’Africa e gli aiuti all’Africa, che trasmetteva a grandi masse giovanili e popolari.
Perché oggi si dichiara «annoiato» del continente africano? Facile la risposta: anche lui è vittima del “concetto sbagliato di aiuti”, molto comune in Occidente: per aiutare i poveri a svilupparsi, bisogna mandare soldi e macchine. Non si è ancora capito che il vero aiuto dovrebbe essere soprattutto l’educazione, perché lo sviluppo deve partire dall’interno di un popolo: non può essere portato dall’esterno e innestato nella tradizione e cultura locale, se non interviene un profondo cambiamento interno, religioso, culturale, di mentalità, di sistemi di vita. I soldi sono necessari, ma dati con la nostra mentalità che ci porta a voler vedere subito i risultati risultano inutili o poco produttivi e favoriscono la corruzione, specie se ci sono governi totalitari e popoli impreparati a controllarli.
L’Occidente vive in una cultura e mentalità materialista e tecnocratica che vede solo i soldi e le macchine, mentre i popoli poveri vivono in una cultura sacrale, tradizionale, abitudinaria, che istintivamente rifiuta le cose nuove, i cambiamenti. Ricordo un missionario della Consolata in Tanzania, padre Camillo Calliari, che ha creato e continua a dirigere un importante “polo di sviluppo” riconosciuto anche dal governo, che mi diceva: «Sai qual è la difficoltà maggiore nell’introdurre le novità più elementari nel mio popolo dei Wabena?
Non la scarsezza di soldi (che ci vogliono!), ma la mentalità conservatrice soprattutto degli anziani, dei capi villaggio e capi famiglia, che si oppongono a molte cose che portano sviluppo, nell’agricoltura, nella sanità e in altri settori della vita. In questi casi, bisogna inserirsi pazientemente nella loro cultura e sistemi di vita, imparare la lingua, diventare fratelli e amici, poi si riesce a ragionare e a convincerli». Naturalmente per fare questo non basta mandare soldi e macchine, occorre donare la propria vita ad un popolo. Ecco l’esempio dei missionari.
Geldof, che ha mandato somme enormi in Africa, dice: «Il passo del cambiamento è di gran lunga troppo lento». È un illuso dagli slogan che dicono: «Per salvare l’Africa dall’Aids basterebbero, che so, un miliardo o due o tre miliardi di dollari, un centesimo di quanto gli USA spendono per le armi e la difesa». Illusione! Non basta calcolare quanti siero positivi ci sono in Africa e quanto costano le medicine. Questa è la spesa minima: per curare in modo efficace, occorre una struttura sanitaria che raggiunga tutti i malati e li segua, anche nelle periferie cittadine e nelle campagne: purtroppo siamo molto, ma molto lontani da questo. Dare medicine, e non controllarne gli effetti, diventa inutile, anzi dannoso!
Nel febbraio scorso sono stato in India, e ancora una volta ho toccato con mano che lo sviluppo è un fatto graduale che viene soprattutto dall’educazione del popolo. L’India è un continente con più d’un miliardo di abitanti e sarebbe assurdo ridurre tutti i suoi problemi a questa formula. Ma gli esempi non mancano.
Nello stato di Andhra Pradesh il Pime, presente da 150 anni, si è sempre interessato dei “fuori casta”, l’ultimo gradino della società indiana, che oggi sono circa 120 milioni; e dei tribali, 70 milioni (i “famosi” indios del Brasile sono 300.000!). Nel 1855, i paria erano schiavi della gente di casta, senza nessun diritto né educazione. Oggi si sono elevati grazie ai governi e alle leggi, all’insegnamento di Gandhi che chiamava i paria «figli di Dio»; ma le migliori scuole e istituzioni sanitarie sono fondate e gestite dalle Chiese cristiane.
Uno dei meriti del Pime in India è proprio questo, sia per quanto riguarda i paria che i tribali. Nel “Tribal Belt”, vasta regione forestale negli Stati di Maharashtra, Andhra Pradesh, Orissa e Madhya Pradesh, protetta dalle leggi contro l’invasione di estranei, il padre Agostino Mundupalakal del Pime, che ha iniziato la missione fra i tribali Khoya a Bhandrachalam, mi dice: «Lo Stato ha fondato o tenta di fondare scuole nei villaggi, ma non funzionano: i bambini non vanno, genitori e insegnanti sono demotivati, ecc. Però le scuole delle Chiese cristiane funzionano; non solo, ma noi aiutiamo e assistiamo gli alunni migliori negli studi medi e superiori». Agostino ha iniziato due scuole tenute dalle suore: una con 1.000 alunni e l’altra per 200 “drop out”, bambini e bambine che hanno frequentato le elementari senza terminarle; la parrocchia ospita 35 ragazzi che vanno a scuola dalle suore. A 40 km i gesuiti hanno un “boarding” con 500 tribali, che portati fuori dai loro villaggi, nutriti e assistiti, studiano volentieri e con successo agli esami statali.
A Warangal, p. Augusto Colombo, in India dal 1952, ha fondato due parrocchie e decine di istituzioni per i più poveri: cooperative, 1.000 donne che lavorano per l’esportazione di ricami e merletti, lebbrosario, ospedali, fattoria-scuola, centro di cura per gli Aids, casette per i più poveri, ecc. Un uomo eccezionale che meriterebbe da solo un libro! Negli ultimi tempi, con i generosi aiuti degli amici di Cantù (Como) e di tanti altri, ha fondato una università di ingegneria con 5 specializzazioni, riconosciuta dallo Stato, attorno alla quale è nata la cittadina “Colombonagar”: 1.300 alunni, circa 120-130 ingegneri l’anno. Metà dei posti disponibili sono riservati ai paria e ai cattolici, che spesso non riuscivano a entrare nelle università! Da pochi anni ha comperato un ospedale con 600 letti (dovrebbero arrivare a mille), accanto al quale sta costruendo, con gli stessi criteri, una università di medicina. Questi i veri “aiuti” che sviluppano un popolo: ma nei dibattiti su questo tema, i missionari sono ignorati! Sono ricordati se vengono uccisi o protestano contro una dittatura, ma la loro esperienza di “promotori di sviluppo” (“Redemptoris Missio”, 58) non interessa. Eppure tutti si interrogano su cosa possiamo fare, noi popoli evoluti, per aiutare i nostri fratelli africani e i poveri dei vari continenti. Ha ragione la Chiesa quando insiste nel dare la massima importanza all’educazione dell’uomo, del popolo, richiamando la responsabilità delle famiglie, della politica, delle scuole, dei mass media.

IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 48-49

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