Diceva Juan Donoso Cortés, marchese di Valdegamas, che le uniche battaglie possibili per i cattolici dei suoi tempi erano quelle sulla carta stampata. Due parole di presentazione per chi non lo conoscesse: spagnolo e discendente dal conquistador Hernan Cortés, dopo una gioventù filorivoluzionaria si convertì e divenne una delle teste migliori del cattolicesimo ottocentesco. Fu deputato, consigliere della regina Isabella Il e ambasciatore a Berlino e a Parigi (dove convinse Napoleone III a sposare la cattolicissima contessa spagnola Eugenia de Montijo, protettrice di s. Giovanni Vianney e poi di Lourdes). Oratore eccezionale, i suoi discorsi alle Cortes (il parlamento spagnolo) venivano subito tradotti in tutta Europa. Ebbe il tempo di scrivere un solo libro, Saggio sul cattolicesimo, illiberalismo e il socialismo, prima di morire a quarantaquattro anni nel 1853. La sua lucidissima intelligenza gli permise di predire l’avvento del comunismo in Russia e perfino la guerra civile spagnola. La sua vita privata fu disgraziata: l’unico fratello (seguace del partito ultracattolico “carlista”, così detto dal nome del pretendente al trono, don Carlos) morì giovane; morirono presto anche la moglie e l’unica figlia. Donoso Cortés, che si ridusse povero a furia di beneficenza, era amicissimo del famoso giornalista cattolico Louis Veuillot, col quale compiva pellegrinaggi mariani a piedi. La sua conversione, clamorosa, fu dovuta all’incontro con un anonimo personaggio la cui magnetica rispettabilità cristiana lo aveva colpito: quando, dopo le presentazioni, osò chiedergliene conto, si sentì rispondere che ciò era dovuto a una religiosità vissuta che Donoso non aveva più. Questo scambio di battute impressionò profondamente il Nostro, e lo indusse a riflessione. La Provvidenza attira in modo misterioso, ma a quella conversione dobbiamo il pensatore che fu consultato dal beato Pio IX per la preparazione del Sillabo.
Questo era dunque Juan Donoso Cortés, che per il vostro Kattolico preferito è una sorta di coperta di Linus. Egli rimpiangeva i tempi più virili in cui la difesa della fede era condotta anche in punta di spada e deprecava l’imborghesimento che aveva ridotto le tenzoni a dispute parolaie. Ma, realisticamente, ne prendeva atto e, sebbene avesse visto la prima delle guerre che contrapposero i carlisti ai liberali, per tutta la vita combatté con la penna e la parola.
Aveva ragione anche qui: dall’Illuminismo in poi la lotta al cattolicesimo era stata condotta per via di propaganda ed era (ed è) quello il terreno sui cui bisognava battersi.
Comunque, era pessimista per il futuro (profeta anche in questo).
Infatti, il cattolicesimo ha sempre più perduto terreno nelle menti e nelle coscienze (le due cose vanno di pari passo) ed è finito quel che è oggi: un”’ideologia” fra le altre, un fatto privatissimo che non deve azzardarsi a uscire di sacrestia o dal “centro d’accoglienza”. Peggio: un’”ideologia” che, avendo già fatto la sua brava parte del leone a suo tempo, ha solo il diritto di esistere (il pluralismo lo impone) purché se ne scusi continuamente e accetti di subire ogni lazzo e sberleffo.
Noi, certo, sappiamo che una religione non è un’ideologia, ma chi ragiona in senso solo orizZontale non è in grado di percepire la differenza. Noi sappiamo, come ben sapeva Donoso, che la religione del” Regno dei Cieli” è “come il seme di senape” che diventa, sì, un “grande albero”, ma poi richiede ogni cura perché non secchi e/o non venga abbattuto.
Noi sappiamo che il cristianesimo è anche il luogo storico in cui si sta meglio, qui e adesso (basta dare un’occhiata all’intera storia), e che ciò è costato il sangue di milioni di persone.
Sarebbe solo stupido chi, dopo aver costruito pazientemente uno splendido castello ricco di opere d’arte e smalti, lo lasciasse tranquillamente diroccare dai vandali.
Sarebbe semplicemente criminale chi, dopo aver generato e allevato ed educato cinque fanciulle, le abbandonasse allo stupro per un malinteso amor di pace o per un peggio inteso “porger l’altra guancia”: la guancia da porgere, semmai, è la sua, non quella di chi ha il dovere di difendere.
Certo, prima si prova col dialogo, con i vandali e gli stupratori; ma se quelli non sentono ragioni?
Ebbene, una propaganda continua e ossessiva, corrosiva e sprezzante erode incessantemente quanto abbiamo di più sacro, non avvedendosi di star segando il ramo su cui essa stessa sta seduta (pèrché anche il laicismo non può non dirsi cristiano). Difendere le frontiere di quel che resta della cristianità, per dar tempo ed agio ad altri di ricostruirla, è compito dell’odierno templare, quello che combatte in prima fila esponendosi ai colpi.
Che oggi sono colpi di insulti, emarginazione, dileggio e querele perfino, perché, come previsto da Donoso Cortés, le battaglie del nostro tempo sono battaglie di parole.
I templari erano monaci che, come tali, praticavano le regole della perfezione evangelica. La loro disciplina e l’addestramento di prim’ordine ne facevano un corpo d’élite che, non a caso, non riceveva quartiere in caso di cattura (e loro lo sapevano benissimo). La guerra di parole non è molto diversa, anche se non è la sopravvivenza fisica ad essere in gioco bensì quella civile, sociale e professionale.
Concluderò l’antifona con un’immagine ottimistica alla Donoso: quando nel 1291 cadde Acri, ultima roccaforte cristiana in Terrasanta, nessuno accorse a soccorrere i templari. Nemmeno vent’anni dopo, quando Filippo il Bello prima convinse il Papa a sconfessarli e poi li eliminò del tutto. A questo punto ci vuole una preghiera, e non trovo nulla di meglio che il coro de Lombardi alla Prima Crociata: “O Signor, che dal tetto natio ci chiamasti con santa promessa: noi siam corsi all’invito di un pio, giubilando per l’aspro sentier. Ma la fronte avvilita e dimessa hanno i servi già baldi e valenti. Deh, non far che ludibrio alle genti siano, Cristo, i tuoi figli guerrieri”.
IL TIMONE N. 28 – ANNO V – Novembre/Dicembre 2003 – pag. 52 – 53
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