A 120 anni dalla nascita, un ritratto del massimo leader comunista italiano. Lo chiamavano il “Migliore”. Fu un comunista ferreo, intimo di Stalin, cinico e spietato con gli italiani prigionieri in Russia. E approvò la sanguinosa invasione di Budapest. Morì in Russia, in circostanze misteriose
Centoventi anni or sono, il 26 gennaio 1893, nasceva a Genova, in una famiglia medio-borghese, l’uomo destinato a diventare il massimo leader comunista italiano: Palmiro Togliatti. Fin dalla prima giovinezza militante del Partito Socialista (che si era formato proprio a Genova sul finire dell’Ottocento), non ne condivise, tuttavia, l’atteggiamento neutralista allo scoppio della Grande Guerra e fece il suo dovere in difesa della patria. Negli anni bollenti del conflitto civile tra fascisti e socialcomunisti, tra il 1919 e il 1922, fu per la linea dura e promosse la “scissione di Livorno” del 1921 con la fondazione del PCd’I (Partito Comunista d’Italia), poi PCI, assieme ad Antonio Gramsci, Umberto Terracini e Amadeo Bordiga.
Il regime fascista e la guerra mondiale
Con la presa del potere da parte di Benito Mussolini nel 1922, ebbe inizio una sistematica repressione nei confronti dei comunisti, che culminò, dopo il fallito attentato al Duce del 1926 a Bologna, con lo scioglimento del partito, la sua messa fuori legge e l’espulsione dall’Italia di tutta la dirigenza. La struttura portante del PCI, sempre collegata con Mosca, dove ormai dominava Stalin, trovò casa prima a Lugano poi a Losanna, finché non furono tutti espulsi anche dalla Svizzera e cercarono rifugio a Parigi, per poi, nel 1934, trasferirsi definitivamente a Mosca. Ormai il ruolo di Gramsci, rimasto in Italia gravemente ammalato, e perseguitato dal regime, era passato a Togliatti, da sempre fedelissimo di Stalin, che lo volle al vertice del Comintern, l’Internazionale Comunista, e gli affidò la guida politica della campagna militare di Spagna contro i nazionalisti del generale Francisco Franco appoggiati dall’Italia fascista. E qui si verificò la tragica resa dei conti tra gli anarchici di Barcellona, ribelli agli ordini di Togliatti, e le truppe repubblicane, con lo sterminio dei dissidenti nel maggio 1937: oltre 500 morti, tra cui il leader anarchico italiano Camillo Berneri (il massacro ispirerà il celebre libro Omaggio alla Catalogna di George Orwell).
Il ritorno in Italia
Togliatti rientra a Mosca, scoppia la seconda guerra mondiale, gli italiani invadono la Russia ma vengono duramente sconfitti. Dopo l’8 settembre 1943 e la spaccatura dell’Italia tra Regno del Sud e Repubblica di Salò, Togliatti rientra in Italia dove è protagonista della cosiddetta “svolta di Salerno”, la città dove sì è formato il primo governo democratico. La svolta consiste nella rinuncia ad abbattere la monarchia e nell’inserimento dei comunisti a pieno titolo nel governo del Re, che deve battere Mussolini e il fascismo.
È la guerra civile. Togliatti è vicepremier nel 1944-1945 nel governo guidato da Ivanoe Bonomi, poi ministro della Giustizia nel successivo governo di Ferruccio Parri, ruolo dal quale promuove l’amnistia del 1946, propagandata come atto di pacificazione in quanto proscioglieva tutti i responsabili di reati politici (comprese le uccisioni alle spalle) «commessi dopo l’8 settembre 1943». Senonché la “copertura” non cessava con il 25 aprile 1945 (data della definitiva sconfitta dei “repubblichini”), ma veniva estesa ai mesi seguenti, dove i reati politici non erano più i fascisti e i comunisti a commetterli, bensì soltanto i comunisti. L’amnistia fu dunque un colpo al cerchio e uno alla botte.
La corsa di Togliatti per la conquista della maggioranza si arrestò con la vittoria anticomunista alle elezioni del 18 aprile 1948. Togliatti, che aveva rifiutato l’offerta di Stalin di trasferirsi a Mosca per assumere la guida del neonato Cominform (l’organizzazione comunista mondiale) preferendo dedicarsi all’Italia, una volta compreso che sarebbe stato impossibile conquistare il potere con il voto, decise di conquistarlo dal basso, per mezzo della cultura, inserendo i fedelissimi nelle strutture portanti dell’organizzazione civile: dalla scuola all’editoria, dal cinema all’arte. Una strategia che ha segnato profondamente la storia italiana arrivando fino al Pd e ai giorni nostri.
L’attentato
Pochi mesi dopo la sconfitta elettorale del 18 aprile 1948, e precisamente alle 11,30 del 14 luglio, Togliatti fu raggiunto da tre colpi di pistola sparatigli mentre usciva da Montecitorio con a fianco la giovane e bella deputata Nilde Jotti, allora ventottenne, per amore della quale aveva lasciato la moglie Rita Montagnana. L’attentatore, Antonio Pallante, era un fanatico anticomunista che continuava a pensare che, prima o poi, il PCI avrebbe portato l’Italia nella sfera dell’Unione Sovietica. Le ferite erano gravissime e il leader comunista rischiò davvero di morire. La reazione, in tutto il Paese, fu immediata. Non appena la radio diffuse la notizia, in alcune grandi città, a cominciare da Genova, Livorno e Taranto, i militanti del PCI scesero in piazza armati sfidando apertamente le forze dell’ordine. La rivolta fu particolarmente dura a Genova, la città natale del capo comunista. Caddero nelle mani degli insorti – che avevano risfoderato le divise partigiane e i fazzoletti rossi con la falce e il martello – la Questura e la Prefettura. Al termine della giornata si contarono 14 morti e centinaia di feriti. Il rischio di sprofondare in una nuova guerra civile fu effettivo anche perché il ministro degli Interni, Mario Scelba, aveva diramato a tutte le questure l’ordine di resistere con le armi ad ogni assalto. Ma, non appena ripresi i sensi, dopo l’intervento chirurgico necessario per eliminare i proiettili che gli si erano conficcati nel torace, Togliatti non esitò a ordinare a Pietro Secchia e a Luigi Longo, i due vicesegretari del partito, di fermare la rivolta. Aveva intuito che, alle spalle della ferrea decisione di Scelba, c’era l’ombra degli Stati Uniti, preoccupati per la sicurezza delle decine di basi militari installate sul nostro territorio a partire dal 1944.
Se quella decisione va iscritta tra i meriti di Togliatti, assieme al varo dell’amnistia, tra i demeriti va invece ricordato un documento che nel 1992, qualche anno dopo l’apertura degli archivi di Mosca, lo storico Franco Andreucci portò alla luce: una lettera scritta da Togliatti il 15 febbraio 1943 a Vincenzo Bianco, suo fiduciario all’interno del Comintern, che gli aveva chiesto di fare qualcosa per i prigionieri italiani che morivano a migliaia, di freddo e di stenti, nei Gulag militari della Siberia. Ecco un brano di quella lettera: «La questione sulla quale sono in disaccordo con te è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi, e ti spiego il perché […]. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri Paesi significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia».
Un altro studioso libero da fratellanze di ogni tipo, Federico Argentieri, nel suo Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata (Marsilio Editore), pubblicò la lettera con la quale Togliatti aveva invocato l’intervento della Russia per stroncare il desiderio di libertà degli ungheresi, scrivendo personalmente a Nikita Krusciov e dando poi l’assenso alla condanna a morte di Imre Nagy, l’ex dissidente comunista ungherese portato al potere dalla rivolta antisovietica del settembre 1956. Ciò non impedirà a Togliatti, pochi anni dopo, e precisamente nel 1964, di associarsi ai “frondisti” del Cremino pronti a far fuori Krusciov, giudicato troppo morbido verso l’Occidente, per favorire il duro e neostalinista Leonid Breznev.
La morte, a Yalta
Quell’anno, per curare i suoi malanni, il “Migliore” si era recato a Yalta: un ricovero destinato ad essergli fatale. Qui giunto, scrisse un memoriale che venne reso pubblico dopo la sua morte, e pubblicato anche in Urss, sulla Pravda, proprio nei giorni in cui Breznev stava prendendo il sopravvento su Krusciov. Il che non fa che riaccendere i dubbi sulla strana morte del leader comunista italiano in quel proscenio russo dove era di prammatica che i boss del partito si ammazzassero tra loro. Quando morì, Togliatti aveva da poco compiuto 71 anni.
Per saperne di più…
Elena Aga Rossi e Victor Zaslavski, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, 1997.
Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, 1999.
Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani, 1976.
Giancarlo Lehner, Palmiro Togliatti. Biografia di un vero stalinista, SugarCo, 1991.
Renato Mieli, Togliatti 1937, Rizzoli, 1964.
Franco Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia University Press, 2005.
IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 30 – 31
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