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12.12.2024

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Tonache insanguinate
31 Gennaio 2014

Tonache insanguinate

 

 


Centinaia di sacerdoti hanno pagato con la vita la tragedia della guerra civile. Assassinati dai «neri» e dai «rossi». Ma solo ai primi è stata riconosciuta l’eroicità del loro sacrificio.


 

«I preti sanno morire». Così scriveva un parroco giudicato «di sinistra» come don Primo Mazzolari (1890-1959), mettendo la frase a titolo del suo ultimo libro, uscito nel 1958 e dedicato «ai sacerdoti d’Italia che danno a tutti gli italiani appuntamento al perdono, alla concordia». Il prete-giornalista, a oltre dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, voleva ricordare in questo modo la «via crucis» (il suo libretto assume proprio tale forma) di tanti confratelli che durante la dittatura e il conflitto – ma anche dopo – erano stati uccisi, spesso per restare fedeli alla loro vocazione e al loro gregge, ammazzati dall’una e dall’altra parte in lotta: da don Giovanni Minzioni (1885-1923) massacrato dai fascisti in Romagna nel 1923, all’emiliano don Umberto Pessina (1902-1946) assassinato dai comunisti nel giugno 1946. A stare al Martirologio del Clero italiano 1940-1946, pubblicato dall’Azione Cattolica nel 1963 per dare «onoranze al Clero vittima», infatti, ufficialmente sono stati ben 729 gli ecclesiastici italiani – dai vescovi ai seminaristi, dai religiosi ai fratelli laici – morti a causa della seconda guerra mondiale, ma soprattutto per gli odii contrapposti che in essa si scatenarono. 422 morirono prima dell’8 settembre 1943: soprattutto cappellani militari uccisi in combattimento o scomparsi in prigionia e parroci periti sotto i bombardamenti alleati; 191 risultano morti durante il periodo della Resistenza, di cui la maggior parte (158) trucidati dai tedeschi e 33 dai militanti della Repubblica sociale; infine 108 furono le vittime dei regolamenti di conti comunisti: 53 caduti durante la Resistenza, 14 immediatamente prima del 25 aprile 1945 e altri 41 dopo. Addirittura sette furono ammazzati nel 1946, uno nel 1947 e un altro nel 1951: ben sei anni dopo il termine del conflitto.
Tantissime tonache prese di mira, dunque. Ed è significativo che stare al fronte, per i sacerdoti, sia risultato in definitiva meno pericoloso che rimanere all’ombra del proprio campanile: infatti i decessi dei cappellani militari durante tutto il conflitto sono stati “soltanto” 148, mentre i parroci italiani morti violentemente nel corso della guerra furono 238 (più 41 viceparroci e 129 tra seminaristi, novizi e religiosi laici).

Le cifre
Analizzando le cifre, che poi vanno in parte integrate con studi successivi, ad esempio conteggiando pure la cinquantina di sacerdoti dell’Istria e della Dalmazia italiane gettati nelle foibe dai seguaci del leader socialista jugoslavo Tito (1892-1980), salta però all’occhio un’altra «stranezza»: a fronte dei 57 sacerdoti morti durante un combattimento diretto, dei 31 defunti in prigionia e dei 18 periti nei campi di concentramento, dei 49 scomparsi in servizio per malattia, dei 30 dispersi e dei 265 defunti durante i bombardamenti, si contano ben 279 appartenenti al clero italiano «assassinati per rappresaglia o per odio di parte»: come dire che oltre un terzo delle vittime in talare non sono state stroncate dai colpi mirati e inevitabili della guerra, bensì per motivi più ideologici o addirittura politici, sia «neri» che «rossi».
Perché dunque questa vera e propria strage di sacerdoti, che il giornalista «laico» Paolo Mieli ha tacciato di «incredibile mattanza»?
Per i preti vittime dei nazifascisti, la risposta è quasi sempre chiara, delineata entro un orizzonte non giustificabile moralmente ma almeno comprensibile dal punto di vista storico-militare: in prevalenza si trattava di parroci che tentavano di difendere la loro gente; era clero che aveva scelto di restare con i propri fedeli, spesso in prima fila, o accomunato al suo popolo nelle stragi di interi paesi. Preti che eroicamente si erano messi in mezzo per evitare un’ingiustizia, una fucilazione sommaria, una rappresaglia indiscriminata, una deportazione di ebrei; e che avevano rifiutato di considerare la propria veste come un «privilegio» che garantisse loro un trattamento diverso da quello di tutti gli altri.
Anzi, il contrario: proprio perché vestivano quella evangelica divisa sentirono spesso il dovere di non sottrarsi, di prendere parola anche in nome altrui, di alzare la voce per dire in faccia al potente di turno: «Non è giusto!». Ed è consolante vedere quanti di loro ebbero questo coraggio, anche a costo di affrontare la morte; così come è interessante notare che lo fecero senza riguardo di parte politica: ovvero tenendo testa al potere arrogante dei nazifascisti, così come ribellandosi più tardi alla violenza rabbiosa dei comunisti. In un libro degli anni Settanta del secolo scorso, intitolato significativamente Una guerra e due resistenze, lo storico don Mino Martelli tentava – forse per primo – di mettere assieme le storie di queste «due resistenze» dei suoi confratelli nel sacerdozio: quella al nazifascismo e la successiva contro il partigianesimo «deviato». Cominciando ovviamente dalla prima, che certo non difettava di casistica: c’era la vicenda luminosa di don Alcide Lazzeri, ucciso dai nazisti nella chiesa di Civitella della Chiana (Ar) il 29 giugno 1944 insieme a 115 parrocchiani, dai quali aveva rifiutato di separarsi. C’è Marzabotto (Bo), dove tra le centinaia di vittime civili della celebre strage nazifascista del settembre 1944 trovano posto anche cinque preti. C’è don Pietro Pappagallo, la cui figura sarà interpretata memorabilmente da Aldo Fabrizi nel film Roma città aperta, ma che nella realtà venne fucilato alle Fosse Ardeatine per aver partecipato alla resistenza clandestina. Anche a Boves (Cn) due delle vittime del noto eccidio sono sacerdoti.

Il difficile riconoscimento
Stranamente però il libro di don Martelli, che pure cercava di essere imparziale e documentato, procurò una lunga sequela di accuse e polemiche all’autore; soprattutto per la parte che si occupava dei martiri italiani del comunismo. Ricordare che c’erano state vittime innocenti anche «dall’altra parte» sembrava infatti (e talvolta purtroppo sembra ancora…) un delitto di lesa maestà contro la libertà, la democrazia, la Costituzione. Non si poteva «sporcare» così l’immagine della Resistenza!
Eppure quei 129 sacerdoti uccisi dai partigiani – rispetto al Martirologio del 1963, il censimento è stato recentemente aggiornato – esistono, e sono ben documentati. Come si diceva, 50 vennero buttati nelle foibe dell’Istria e della Slovenia italiane; altri 28 furono trucidati in Emilia Romagna, nel «triangolo rosso» tristemente famoso per gli ammazzamenti e le «sparizioni» del dopoguerra; ma non vanno dimenticati i dodici parroci «fatti fuori» nel «democratico» e civilissimo Piemonte, i quattordici preti uccisi in Toscana, i cinque della Liguria e i cinque delle Marche, i due abruzzesi…
Casi sconvolgenti. Ecco don Giuseppe Jemmi, giovanissimo «cappellanino» di Felina (Re), giustiziato da una fazione partigiana mentre l’altra cercava di salvarlo. L’anziano don Luigi Bovo, del Padovano, venne invece trucidato sulla porta della canonica da un commando che gli lasciò in mano un foglietto: «Così muoiono i traditori del popolo». Don Enrico Donati fu buttato in un macero nella campagna emiliana.
Don Augusto Galli di Pereto (Ps) potrebbe essere segnalato come un desaparecido italiano: gli spararono di notte e nemmeno il vescovo ebbe il coraggio di portare il suo caso in tribunale. Fino al più noto don Umberto Pessina, di Correggio, dal cui omicidio scaturì un’inchiesta che ebbe epilogo solo negli anni Novanta. In tutto ben 50 preti italiani risultano uccisi dopo il termine delle ostilità o comunque non dal nemico militare. Alcuni di questi martiri furono assassinati insieme alla perpetua, per non lasciare testimoni scomodi; altri non sono stati mai più ritrovati; altri ancora erano talmente ignari da aver accolto i loro assassini offrendo da bere e da mangiare…
Certo, si era in un clima di guerra e per alcuni di questi sacerdoti (ma si contano su una sola mano, al massimo due) si può sostenere che fossero in qualche modo legati al fascismo; un’altra quindicina erano stati cappellani militari, se questa circostanza da sola può essere – e tuttavia nel caso di un prete non è – un’ammissione d’adesione ideologica al regime. In ogni caso non ebbero un processo regolare e morirono di giustizia sommaria.
Ma la maggioranza fu comunque uccisa con accuse false, pretesti per vendette personali; alcuni erano addirittura cappellani partigiani, traditi dai loro compagni. Talvolta i parroci venivano «prelevati» di notte con la scusa di un moribondo da assistere e non tornavano più, tal altra furono «fatti fuori» vari mesi dopo la fine della guerra sulla base di sospetti mai verificati. Alcuni vennero eliminati – triste dirlo – perché come leader popolari avrebbero potuto ostacolare l’«ora X» della rivoluzione proletaria in cui molti militanti comunisti credevano, oppure perché si opponevano alla politicizzazione della Resistenza. Certuni furono seppelliti alla chetichella, senza funerale, come se ci si dovesse vergognare di loro. Morti due o tre volte: non solo sotto i colpi del mitra «giustiziere», ma anche perché coperti di infamanti calunnie per rendere più credibile l’esecuzione («Era una spia fascista»; «Aveva un’amante…») e perché la loro memoria non è mai stata riabilitata.
Ecco: se non esiste differenza di merito tra i sacerdoti martiri dei «neri» e quelli che hanno perso la vita a causa dei «rossi», però non si può fare a meno di notare che nove sacerdoti italiani uccisi dai nazisti e cinque assassinati dai fascisti sono stati insigniti – giustamente! – di medaglie dalla Repubblica italiana; nulla è ancora andato invece a nessuno dei 129 loro confratelli massacrati dai partigiani comunisti, nelle foibe o nel «triangolo rosso».
Come mai?

Verrà loro reso l’onore della memoria?
I tanti parroci e religiosi caduti sotto i colpi delle esecuzioni sommarie e delle stragi tedesche – senz’altro meritevoli per la loro innocente immolazione – per lo meno sono stati vittime di una guerra dichiarata e alla fine hanno ricevuto il riconoscimento del loro sacrificio, godono della stima e del rispetto dei posteri, sono stati collocati insomma nella casella degli «eroi». I loro compagni uccisi nelle stragi partigiane, invece, non soltanto sono morti quando la guerra non c’era più e nessuna necessità superiore poteva giustificare l’assassinio; ma il loro silenzioso martirio è stato spesso coperto dalla diffamazione e dalla ripugnanza morale, quasi che siano stati dei colpevoli anziché delle vittime. Non è tempo finalmente di rivalutarli?

 

 

 

Dossier: Resistenza: la guerra civile

 

IL TIMONE N. 95 – ANNO X II – Luglio/Agosto 2010 – pag. 39 – 41

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