Anche stavolta faremo zapping, per dirla con termine televisivo, tra molte epoche e molti personaggi. Cominciamo, ad esempio, dal protestantesimo. Mentre per il sistema di Lutero è centrale la dottrina dell’uomo che si salva solo attraverso la fede, non attraverso le opere, per Calvino è centrale la “doppia predestinazione”. Sin dalla creazione, cioè, Dio dividerebbe in due l’umanità: quelli destinati alla gloria del Cielo e quelli destinati all’inferno eterno. E, questo, per un insondabile giudizio divino, indipendentemente dai meriti personali. Contro questa teologia della “massa dannata”, di fronte alla quale si ribella ogni più elementare senso di giustizia, il maggior oppositore, alla fine del Cinquecento, fu l’olandese il cui nome fu latinizzato in Jakobus Arminius il quale, nonostante le opposizioni accademiche, riuscì ad avere una cattedra alla università di Leida. Ma verso di lui si scatenò la persecuzione della Chiesa di Stato la quale incaricò un collega teologo di Arminius perché sintetizzasse e riconfermasse ufficialmente la dottrina di Calvino. Questa la sintesi che a noi – e pensiamo ad ogni credente nel Dio di Gesù – sembra davvero agghiacciante: «Nel primo atto e momento, Dio volle condannare alcune creature razionali, ma non poteva condannarle se non fossero esistite. Dunque, nel secondo momento decretò la creazione dell’uomo. Ma lo doveva condannare giustamente e per questo bisognava che l’uomo peccasse: dunque, lo creò senza peccato e gli impose alcune leggi. Nel terzo momento, determinò che l’uomo trasgredisse quelle leggi. In questo modo assicurò il fine della Creazione: cioè, la condanna eterna di creature razionali. E, questo, fece per la Sua gloria».
Non occorrono commenti, pensando a quella “massa inesorabilmente dannata” tra i tormenti dell’inferno, senza speranza di salvezza perché, con questa inaudita somma di tormenti di innocenti, «Dio sia glorificato». In realtà, in questo modo è bestemmiato Colui del quale la Scrittura stessa – unica norma per la fede, anche, anzi soprattutto secondo il protestantesimo – rivela che «Dio è amore». Anche alla luce di questa teologia aberrante, si giudichi il sempre ricorrente rammarico della intellighenzia laica perché l’Italia non è passata anch’essa alla Riforma. C’è invece da ringraziare il Creatore, che ci ha risparmiato di avere di Lui una simile immagine.
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Praticando la storia, mi sono sempre più convinto che molti eventi sui quali si costruiscono tante complesse dietrologie, tante ipotesi di motivi oscuri, sono dovuti in realtà al caso o all’intreccio di circostanze impreviste e non a chissà quale intenzione o piani preordinati. Ne trovo una riconferma esaminando un recente studio francese su Leone XIII, il successore di Pio IX. Da secoli, il nuovo eletto Papa usciva dal conclave e, subito, si affacciava alla celebre loggia sulla facciata di San Pietro per una solenne benedizione urbi et orbi. Ma dopo la fumata bianca del 26 febbraio del 1878, il neo-pontefice, Vincenzo Gioacchino Pecci, già arcivescovo di Perugia, non si affacciò, malgrado l’attesa della grande folla riunita in piazza San Pietro. Da qui, le più varie interpretazioni: la più diffusa è che si trattasse di una protesta verso l’occupazione italiana di otto anni prima. Essendo stata la mia tesi di laurea in storia del Risorgimento, conosco bene l’episodio e ne conosco anche le interpretazioni politiche, come se il Papa volesse rifiutare una benedizione a un mondo moderno che aveva osato addirittura spogliarlo dei suoi possessi temporali. Un no intransigente, dunque, alla pari di quello di Pio IX, a qualunque accomodamento o dialogo.
Ovviamente, io pure ne ero convinto (così, del resto, ci spiegavano anche i nostri Maestri) fino a quando non ho scoperto, grazie allo storico francese attuale, le ragioni banali della mancata apparizione alla loggia.
In realtà, Leone XIII, come da pochissimo aveva scelto di chiamarsi, si avviò alla testa del corteo dei cardinali elettori per benedire “l’urbe e l’orbe”. Ma, arrivato davanti all’antica e grande vetrata che dava accesso alla facciata, trovò un affannato tramestio di monsignori e di inservienti che cercavano invano di aprirla. Il fatto è che non si trovava la chiave, da anni la loggia era chiusa e nessuno si ricordava dove stesse l’attrezzo per aprirla. Si propose, ovviamente, di chiamare dei falegnami: ma dove trovarli, a quell’ora della sera, in un Vaticano deserto? E come fare attendere tanto a lungo la folla sulla piazza? Inoltre, qualcuno più esperto fece osservare che i falegnami avrebbero dovuto probabilmente smontare almeno una delle grandi ante, costruite ai tempi del Maderno, l’architetto della facciata. Ma l’operazione sarebbe stata ben visibile dall’esterno e che cosa si sarebbe pensato di una simile operazione inaudita? Alla fine ci si arrese, il corteo papale fece dietrofront e raggiunse un balcone che dava sull’interno del Vaticano e da lì fu impartita la benedizione. Ma già il giorno dopo la stampa anticlericale e massonica cominciava una dura polemica contro un pontefice disumano al punto da volere ignorare persino i suoi fedeli che aspettavano di essere benedetti da lui. E questa interpretazione è giunta sino ai giorni nostri. In realtà, un motivo “occulto” c’era davvero: ma era “l’occultamento” involontario di un’antica chiave. Alla salute dei dietrologi, dei complottardi, dei “benaltristi”.
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A proposito degli anni del pontificato di Leone XIII. Posseggo diverse annate de La buona settimana che precisava, sotto la testata, “Foglio periodico religioso popolare”. Era, probabilmente, la pubblicazione cattolica più diffusa tra Ottocento e Novecento ed era edita da quell’editore Speirani che chiamò a Torino (dove anni dopo si suiciderà) un tal Salgàri, allora agli esordi, perché scrivesse per lui romanzi per ragazzi. Molti ignorano che il giovane Emilio produsse a lungo, su commissione, libri “cattolici” per quell’abile e al contempo devotissimo stampatore. Mi piace, ogni tanto, sfogliare a caso i volumi rilegati della rivista. Vi trovo una Chiesa vitalissima, consapevole della sua fede e delle esigenze innanzitutto missionarie che comporta. Ho sempre pensato che gli anni tra il 1870 e il 1929, gli anni cioè tra Porta Pia e la Conciliazione, siano stati uno tra i periodi di maggiore fecondità cattolica. L’aggressione, spesso la persecuzione anticlericale costringevano i credenti a riscoprire la loro identità, ad unirsi, ad organizzarsi, a confrontarsi a viso aperto – mettendosi duramente anche a studiare per motivare le loro ragioni – con chi considerava superstizione anacronistica il loro Credo. Il non expedit, poi, vietando ai cattolici l’impegno politico nazionale – ma non quello amministrativo, a livello comunale e provinciale – non disperdeva le forze dei credenti in partiti e partitini, ma le polarizzava verso un impegno sociale e culturale che diede frutti abbondanti. Il compatto e al contempo variegato “mondo cattolico”, con le sue istituzioni che coprivano ogni esigenza e bisogno per ogni classe sociale, nacque proprio negli anni del “Papa prigioniero”, come si amava dire. E quelli furono anche gli anni in cui il missionario ad gentes, divenuto figura affascinante e carismatica, allargò in modo straordinario le frontiere della Chiesa, agendo con eroismo e con straordinario frutto, in Africa, Asia, Americhe, Oceania. Bei tempi, per la fede e per la Chiesa che la propagava: confesso che li avrei vissuti volentieri.
Un mondo, quello, in cui la fede veniva vissuta anche attraverso devozioni che possono fare sorridere noi, cristiani che ci crediamo smaliziati e siamo invece soltanto annacquati. Ma delle realizzazioni sociali e delle conquiste spirituali di quei “devoti” la Catholica si è alimentata per decenni e ancora adesso, che lo voglia o no, gode molti dei frutti. Che lasceremo ai fratelli che verranno dopo di noi, noi, presunti “cattolici adulti”?
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Non amo i premi, soprattutto se “alla carriera”: suonano un po’ mortuari, in quanto premiano il passato e non il presente e il futuro. Si dà cioè per scontato che ciò che aveva da dire un autore lo abbia ormai detto, ciò che avrà ancora da scrivere non sarà che ripetizione. Oddio, c’è un po’ di verità in questo: qualcuno sostiene, forse non a torto, che ciascun saggista, per quanto grande, non ha da dire altro che ciò che sta nelle trecento pagine del suo primo libro. Il resto non sarà che commento, precisazione, ricamo sul tema, ma non più pensiero originale.
Ci sono però occasioni in cui non è possibile ricusare. Così, tempo fa, mi è capitato di dovere accettare di presenziare ad una di queste cerimonie. Per di più, solo dopo essere arrivato sul luogo, ho scoperto che, assieme a me, era premiato don Andrea Gallo. Cioè, l’ottantacinquenne prete con (per molti) fama di demagogo che – tra le sue ultime esibizioni – celebrando l’anniversario di fondazione della sua Comunità, ha sciolto il fazzoletto rosso che aveva al collo e lo ha sventolato, intonando commosso non certo un Te Deum, bensì il presunto canto della Resistenza, “O bella ciao”. Il tipico ritardo clericale, il rimanere alla generazione precedente, pensando di essere così “nella corrente della Storia”, di “essere in sintonia con il popolo”: qualcuno dovrebbe avvertirlo che la bandiera rossa è stata ammainata per sempre, ovunque sventolasse, più di vent’anni fa (dal Cremlino, tra l’altro, un 25 dicembre) e nessuno rimpiange quel sedicente “paradiso dei lavoratori”, in realtà il regno del privilegio per la Nomenklatura e della miseria per tutti gli altri. Bisognava spiegargli anche che nessun partigiano ha mai intonato «O bella ciao», visto che le parole sono state inventate dal PCI negli anni Cinquanta e innestate sulla melodia di una vecchia canzone che nulla aveva a che fare con la politica. Insomma, altro che eroico ethos popolare: una delle tante operazioni di mera propaganda politica. Ma, forse, sarebbe stato opportuno ricordare anche, a quel vecchio prete, che i partigiani “rossi” emiliani, quelli con al collo il fazzoletto che ha voluto mettersi, ogni notte prelevavano un parroco dalla sua canonica e il mattino dopo veniva trovato massacrato in un fossato. Unica sua colpa: essere un sacerdote. Si giunse anche al caso di un seminarista crocifisso a una porta da parte di quei “resistenti” che commuovono il vegliardo genovese. Ancora negli anni Ottanta andai a trovare mons. Alessandro Maggiolini, di cui in questi giorni mi veniva in mente un’amara battuta. Davanti ai Pacs francesi, preludio del “matrimonio” attuale tra omosessuali, non esitò a dire in cattedrale: «Questo è solo l’inizio: vedrete che si giungerà alla legalizzazione delle nozze tra le persone umane e i loro sempre più amati cani, gatti o cavalli». Se parlo ora di quel presule che amava parlar chiaro è perché, a cena, dopo una conferenza che mi chiese quand’era vescovo di Carpi, mi confidò di essere rimasto sbalordito e addolorato scoprendo, in quell’Emilia profonda che non conosceva, che dopo più di quarant’anni dalla “liberazione” c’era ancora un clima di paura. Tutti sapevano quali erano stati gli assassini dei preti (ma non solo loro, non a caso la zona era conosciuta come “il triangolo della morte”) eppure nessuno osava dirlo per tema delle vendette di un Partito Comunista ancora egemone e prepotente.
Ma ai don Gallo sarebbe inutile ricordare simili cose: per l’ideologo, come si sa, conta solo il mito e i fatti vanno messi sprezzantemente da parte, definendoli “provocazioni della oscura reazione sempre in agguato”. E lui continuerà ad alzare il pugno chiuso, simbolo di una tragedia storica che, stando alle valutazioni più ottimiste, ha provocato almeno cento milioni di morti.
Per tornare alla cerimonia di quella sera: fummo messi vicini, prima in platea, e poi sul palco. Non l’avevo mai incontrato di persona e ne approfittai per scambiare, ovviamente civilmente, un po’ di parole. Non reagii neppure al suo discorso di ringraziamento, pieno di accuse alla Chiesa “costantiniana”, ai “privilegiati”, ai “borghesi”, tutte cose che mi fecero ricordare non la Resistenza ma, stavolta, la vecchia contestazione clericale anni Settanta. Ma quel teatro festoso non era certo la sede per mettersi a dibattere (a parte l’inutilità di simili confronti) e, comunque, io ho paura dello zelo di chi si sente sempre e comunque militante con in testa l’elmo e in pugno spada e scudo per difendere quella che a lui sembra la “buona causa”. Non ho mai rifiutato e mai rifiuterò di andare lealmente a pranzo con persone con il cui pensiero mi sono scontrato, magari con la durezza che mi sembrava doverosa, sulle pagine di giornali e di libri o in qualche comparsata televisiva. Chi, ad esempio, fosse passato qualche tempo fa in un ristorante dell’aeroporto di Fiumicino sarebbe rimasto sorpreso nel vedere a cena insieme, in tutta tranquillità, colui che qui scrive e Piergiorgio Odifreddi, il matematico, l’ex-seminarista, la macchietta dell’ateismo “puro e duro”, invitato da Bruno Vespa per una puntata di “Porta a Porta” che aveva come spunto il mio libro su Bernadette. In trasmissione non c’eravamo risparmiate le frecciate, magari le aggressioni e le difese verbali, ciascuno aveva sostenuto, con convinzione, le sue tesi; ma, alla fine, aspettando l’aereo eravamo andati volentieri a mangiare insieme un boccone. Mettendo da parte, a tavola, le dispute religiose e parlando di un tema caro ad entrambi e sul quale ci trovavamo unanimi: quella Torino assai cara sia a me, modenese, che a lui, cuneese. Nessun “inciucio”, nessuna ipocrisia, semplicemente la consapevolezza che una cosa sono le idee, altre cose le persone. Forse che gli ultimi due papi non ci hanno dato l’esempio, con i loro viaggi per il mondo, ripetendo in ogni Paese, senza perifrasi e autocensure, il loro messaggio ed essendo al contempo ospiti cordiali e rispettosi di governanti, di notabili e di intellettuali locali con idee e prassi contrastanti? Mi viene in mente, tra gli ultimi esempi, il lungo, riservato, oserei dire affettuoso colloquio, se non confessione tra Benedetto XVI e quel Fidel Castro, ormai decrepito e malato, che sempre si è detto un materialista ateo e che non ha esitato neppure a perseguitare i cattolici.
Per tornare a don Gallo: se l’incontro personale era stato cordiale, non furono certo cordiali ma (lo dico con amarezza) venati di disprezzo se non di odio i suoi commenti, segnalatimi da qualcuno, in un suo blog o in una intervista, messi in circolazione su internet. Tra l’altro, nel colloquio sul palco prima della premiazione, mi chiesero se, da cristiano, temevo la morte. Risposi che non temevo la morte, temevo il giudizio cui tutti dovremo sottostare e dove – anche, se non soprattutto, per i cosiddetti “scrittori cattolici” – non conterà aver ripetuto tante volte “Signore, Signore…”, se all’invocazione non saranno seguiti fatti adeguati. Nel suo commento sul web, il “prete di strada” (come ama definirsi) si diceva indignato da simili esternazioni, le considerava un’autentica deformazione del Vangelo: stando a lui, l’equilibro doveroso, nel Cristo giudice, tra giustizia e misericordia va eliminato, tutti salvi, tutti promossi al Paradiso. Tutti, tranne, ovviamente, Hitler, Mussolini, Pinochet, Berlusconi e altri di “destra”: l’inferno è fatto soltanto per quelli che lui chiama, in blocco, “i fascisti”. All’ingresso dell’Aldilà, basterà dire che sei stato “de sinistra” e ti spalancheranno subito le porte della gloria e della gioia eterne.
Ma ciò che mi amareggiò non furono queste cose, ed anche altre, sempre al veleno, del Gallo in questione ma fu qualcos’altro che va, addirittura, alla radice: la croce. Mi occorre spiegare: per le occasioni più o meno importanti (dalle nozze alle conferenze) ho, come tutti, un completo scuro. Ma Rosanna, mia moglie, diceva che, per “spezzarlo” occorreva qualcosa, suggerendo – come molti usano – un fazzoletto bianco che sporge dal taschino della giacca. Ma poiché non ho voglia o tempo di sistemarmelo, ecco il suo consiglio: mettere all’occhiello della giacca il piccolo contrassegno rotondo, in oro, del più antico e prestigioso Ordine cavalleresco di Spagna, quello di Isabella la Cattolica. Fu il Gran Maestro dell’Ordine, lo stesso re di Spagna, Juan Carlos, a cogliermi del tutto di sorpresa, proclamandomi caballero come “amigo de la Hispanidad”, dopo avere letto ciò che avevo scritto in alcuni libri. Nella cerimonia di investitura mi fu consegnata una pergamena e, assieme ad essa, la bella, antica medaglia smaltata con nastro multicolore. Ma poiché questa si porta solo su frac e tight (abiti che, ovviamente, non ho mai posseduto né mai possederò) a don Vittorio, come nuovo caballero, venne consegnato anche il “distintivo” da occhiello. Il quale porta solo quella che gli araldisti chiamano “croce patente”: la stessa che le tre caravelle di Colombo avevano dipinte sulle vele quando scoprirono l’America, per incarico, appunto, della regina Isabella. Dunque, per mere ragioni (come dire?) estetiche, sull’abito scuro ho quel contrassegno all’occhiello. Niente di confessionale, niente che abbia a che fare con la vanità, niente di vistoso, anzi, quasi sempre la croce è invisibile a causa dei riflessi di luce sull’oro. Comunque, nessuno sa che cosa sia quel “distintivo” e, devo dire, nessuno me l’ha mai chiesto né io, come ovvio, ne ho mai accennato. Avevo quel cerchietto anche la sera della premiazione e non potevo certo immaginare la reazione di quel vecchio prete il quale – nel blog o intervista di cui dicevo – si sfogò contro quei cristiani ipocriti che, come me, esibivano vistosamente la loro presunta fede. Lo confesso: mentre sulle altre contumelie sorrisi, scuotendo il capo, non mi riuscì di farlo per questo scherno. Vi ho visto, infatti – e spero di sbagliarmi – come una sorta di allergia rabbiosa di un sacerdote verso il simbolo stesso della fede nel cui nome è stato consacrato. Ne sono stato, dicevo, amareggiato; forse, anche un poco spaventato. Sia chiaro: io pure detesto le ostentazioni fideistiche e temo il peccato che più provocava le reazioni di Gesù, l’ipocrisia. Anzi, a dire il vero (a costo di scandalizzare qualcuno), scrivendo sui giornali mi sono detto, più volte, molto perplesso sull’opportunità di mantenere una legge che obblighi ad esporre il crocifisso, sempre e comunque, nei luoghi pubblici. Ma questo è ben altra cosa, mi pare, della reazione intollerante di uno che è pur sempre da sessant’anni consacrato come “sacerdote di Cristo” e che (va pur detto, per verità) non si è mai spinto sino all’uscita dalla Chiesa.
IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 64 – 66
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