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12.12.2024

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Tutto il delitto minuto per minuto
31 Gennaio 2014

Tutto il delitto minuto per minuto

 

  

 

La cronaca nera dilaga, ingolfando i mass media per intere settimane. L’opinione pubblica sembra in preda a una curiosità morbosa. Così si dimentica che questi delitti prosperano dove mancano una vita di fede, una frequentazione assidua dei sacramenti, una visione religiosa e non edonistica della vita
 


Accendi la tv per sapere che cosa è successo nel mondo, e scopri che il telegiornale si è trasformato in un corso accelerato di criminologia. Imparare come uccidere è facile: i cronisti – incarnati sempre più spesso da donne urlanti e ambiziose – si immergono, come sommozzatori del peccato, negli abissi del male, e sembrano provare compiacimento davanti alla scoperta di un nuovo particolare raccapricciante, di un colpo di scena che promette di mantenere la notizia saldamente in cima alla scaletta del tiggì. Le trasmissioni di approfondimento traboccano di avvocati, di imputati ciarlieri, di una corte di psicologi, filosofi, soubrette, politici, che discutono davanti a plastici in miniatura della scene crime.
La vicenda di Avetrana, teatro dell’omicidio di Sarah Scazzi, è un caso da manuale di questa inquietante deriva. Prima la confessione in diretta Tv, poi i dettagli morbosi dell’omicidio,il colpo di scena di un altro colpevole, e ancora la diffusione sui mass media dell’audio della meticolosa confessione dell’assassino. Si inaugura così un nuovo genere narrativo: tutto il delitto minuto per minuto. L’occhio sfacciato della telecamera afferra la presa, con lo stesso piglio con cui un bravo regista aggancia i suoi attori impegnati sul set di un film giallo. Con una fondamentale differenza: qui, i morti e il sangue sono veri.

Quel lenzuolo sollevato
Possibile che gli uomini siano diventati così morbosamente curiosi di fronte ai delitti più raccapriccianti? I giornali e la televisione hanno inaugurato una gara oscena, nella quale vince chi riesce a mostrare nella maniera più cruda il lato oscuro e ripugnante dell’umanità. Omicidi e violenze sono sbattuti in faccia all’opinione pubblica, vivisezionati in ogni dettaglio, passati e ripassati in apertura dei tiggì a ogni ora del giorno e della notte. Giornalisti e telecamere assediano senza posa il luogo del delitto, inseguono testimoni e possibili imputati, rilanciano interviste e registrazioni degli interrogatori. Il tinello delle case di milioni di italiani viene così sistematicamente violato dal mezzo televisivo, che fa irruzione nell’intimità domestica. La gente comune viene addestrata senza posa a passare il proprio tempo standosene con il naso schiacciato contro una metaforica vetrata, oltre la quale investigatori e giornalisti armeggiano con prove, indizi, e testimoni. Nessuna meraviglia, ovvia mente, se il telegiornale racconta che è accaduto un delitto: è normale che il male faccia notizia. Il problema è l’insistenza ossessiva e francamente inspiegabile, che trasforma un fatto di cronaca nera in una situation comedy a costo zero. Recitata da attori improvvisati che diventano famosi in poche ore, grazie al cronista di turno che li insegue per gettarne le emozioni in pasto alla gente.
Un certo interesse dell’opinione pubblica per i processi e per la cronaca nera c’è sempre stato. Ma qui sta succedendo qualche cosa che non ha precedenti. Lo ha spiegato bene nei giorni scorsi il direttore de La Stampa, Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso dalle Brigate Rosse nel 1971 a Milano: «Esiste un gesto antico di pietà, è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico. Lo si fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo. È un gesto codificato dal mondo greco, almeno venticinque secoli fa (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve soltanto a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista della morte. È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi. Oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell’informazione che si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e spingere tutti a fissare quello che c’è sotto. Molti restano incollati all’immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto».

Si mostra tutto, ma non si spiega nulla
In questo voyeurismo assetato di sangue, si nasconde anche un’eterna illusione: quella di “essere informati bene”, di “sapere tutto”. È il mito liberal-democratico dell’informazione pluralista, incarnato dal giornalista-eroe che “non nasconde nulla” e che pubblica tutto sul suo giornale. Gli fa da pendant il teledipendente che si sente non solo in diritto ma perfino in dovere di seguire ogni trasmissione dedicata al delitto del momento, per poter domani esibire in ufficio una perfetta padronanza della materia. Ma la verità è un’altra: più le telecamere indugiano sui dettagli raccapriccianti, e meno la gente è aiutata a riflettere sul significato di quello che sta vedendo. Altro che Tv verità: è casomai un monumento vivente alla superficialità più imbarazzante. Nessuno sembra accorgersi che i delitti efferati, compiuti da persone “normali”, sono una formidabile occasione per riflettere sul mistero dell’animo umano. Sono una sorta di “prova indiretta” dell’esistenza del peccato originale, di quella inclinazione a compiere il male che ci portiamo dietro, e del fatto che non c’è essere umano che sia esente dal rischio di scivolare improvvisamente in un abisso di malvagità. Il prete detective di G. K. Chesterton, Padre Brown, lo spiega bene raccontando il suo stile investigativo: «Io sono un uomo del tutto simile al criminale, eccetto che nella volontà di compiere l’azione finale». La Tv ingolfa la testa della gente di lacrime e di sospiri, di plastici della scena del crimine e di psicologi alla moda, ma non trova il tempo per costatare che questi delitti prosperano spesso in un ambiente dove mancano completamente una vita di fede, una frequentazione assidua dei sacramenti, una visione religiosa e non edonistica della vita. Gli uomini fanno terra bruciata di Dio e della Chiesa, e poi si stupiscono se satana mette in scena – con l’aiuto delle telecamere – delitti così spettacolari e agghiaccianti. Il maligno è scatenato, e l’uomo moderno non lo combatte con la preghiera ma fissando ossessivamente la scena del delitto.

L’ideologia della descrizione
Comportandosi in questa maniera, i mass media contribuiscono a modificare la realtà, almeno in due sensi. Innanzitutto, inducono i protagonisti della vicenda a modificare i loro atteggiamenti “perché c’è la Tv”. Il colpevole usa le interviste come arma strategica e difensiva; i testimoni o i vicini di casa ne approfittano per avere il loro momento di gloria; perfino il prete che deve celebrare le esequie rischia di pensare più all’inquadratura delle telecamere, piuttosto che all’anima della vittima. In secondo luogo, i mass media modificano l’opinione pubblica. Infatti, i mass media a cadavere caldo grondano ipocrita esecrazione, che diventa ben presto normalizzazione e talvolta perfino esaltazione della perversione e della malvagità. E questo è, a ben guardare, l’effetto più inquietante di quel lenzuolo che viene alzato: mostrare a tutti che anche il male più terribile si può fare. Il filosofo Emanuele Samek Lodovici (Metamorfosi della gnosi, 1979) aveva chiamato questo meccanismo “ideologia della descrizione”, incarnato da chi finge solo di raccontare, e invece propone modelli da imitare. I mass media si fondano «sul gesto unico dell’ammasso, la moltiplicazione delle informazioni» che diventa «indifferenza assiologica rispetto alla verità: dietro l’apparente pluralismo delle diverse opinioni si cela un monismo reale: la verità non c’è, né ci può essere».

RICORDA

 

«La Chiesa è l’unico organismo che ha sempre tentato sistematicamente di perseguire e scoprire i crimini, non allo scopo di vendicarli, ma con l’intenzione di perdonarli. (…) La stranezza della Chiesa é questa sua impietosa pietà: é come un inesorabile segugio che insegue la preda per salvarla, non per ucciderla».

(G.K. Chesterton, Daily News del 20 febbraio 1909).

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 98 – ANNO XII – Dicembre 2010 – pag. 14 – 15

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