Rifiutati i modelli tradizionali, i genitori si sentono sempre più insicuri nello svolgere il loro ruolo; e sentendosi insicuri cercano indicazioni dai cosiddetti esperti i quali sfornano a ripetizione nuove teorie pedagogiche con le quali riempiono libri e riviste. Tutti ricordiamo, ad esempio, le teorie del dottor Benjamin Spock (1903-1998, il pedagogista americano, non il personaggio di Star Trek), molto diffuse negli anni Settanta del secolo scorso, che invitava i genitori a non frustrare la creatività dei bambini; ossia, in altri termini, al permissivismo. Va ricordato che il dottor Spock, fedele al suo motto “La pedagogia è politica”, fu arrestato per incitamento alla diserzione (l’ultima volta a 85 anni), e partecipò a diverse campagne, tra le quali quella a favore dei genitori single. Il suo primo libro, intitolato Common Sense Book of Baby and Child Care, pubblicato nel 1946, ha venduto più di cinquanta milioni di copie; la generazione nata negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, protagonista del cosiddetto ’68 e della rivoluzione sessuale fu chiamata “generazione Spock”.
La tendenza attuale è quella per cui bisogna risparmiare ai figli ogni frustrazione per evitare di “minare la loro autostima”. Le case sono piene di bambini viziati e iperprotetti, ai quali è chiesto di gestire in autonomia la televisione o internet, di scegliere il proprio abbigliamento o la colazione anche se non hanno ancora completato lo sviluppo cerebrale e cognitivo; e di genitori disperati, che non sopportano più i loro figli e sono, per questo motivo, pieni di sensi di colpa. Il risultato più probabile di questo nuovo esperimento educativo è quello di crescere un piccolo tiranno (in casa), assolutamente incapace di sopportare le frustrazioni e gli ostacoli che la vita necessariamente pone. Dove sta dunque l’errore? È semplice: si confonde l’autostima con il narcisismo.
Avere una buona autostima non significa avere necessariamente una buona opinione di sé. La parola “autostima” significa auto-valutazione, auto-misurazione, ossia conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità. Una buona misurazione è quella che si avvicina di più alla realtà, non quella che dà il risultato più gradito. Pensiamo ad una bilancia pesa-persone: se chiunque ci sale ottiene un peso di cinquanta chili, essa farà felici molte persone, ma non potremmo certo dire che misura accuratamente. Avere una buona autostima significa dunque avere un giudizio il più possibile realistico di sé, nel bene e nel male. Dunque non è utile premiare sempre e comunque i bambini, e non far loro notare gli errori commessi per paura di ferire la loro autostima. Piuttosto, premiare il merito e punire l’errore aiuterà i bambini ad avere una buona autostima, cioè una valutazione realistica delle proprie capacità. Ritenere di avere capacità più elevate di quelle che in realtà si hanno non significa avere una buona autostima, ma quel difetto di autostima che si chiama narcisismo. Allo stesso modo, anche ritenere di avere meno capacità di quelle che si hanno è un difetto di autostima che si chiama svalutazione di sé.
La saggezza della Chiesa, che da sempre si è occupata di far crescere le persone, aveva già individuato questo problema, e le possibili soluzioni. In termini teologici, una buona autostima si chiama umiltà.
Secondo san Tommaso d’Aquino l’umiltà consiste nel conoscere i limiti delle proprie capacità e tenersi entro questi limiti. Ci sono due modi in cui si può non essere umili: per eccesso (presunzione), ritenendosi migliori di come si è in realtà; ma anche per difetto (pusillanimità), cioè ritenendosi inadatti alla cose di cui si è capaci. Orgoglio e pusillanimità sono il corrispettivo teologico di ciò che, con termini psicologici, abbiamo chiamato narcisismo e svalutazione di sé. Sempre secondo san Tommaso, la pusillanimità è un peccato più grave della presunzione, perché con essa l’uomo si ritrae dal bene, che è il fine stesso della sua esistenza. Spesso si sentono anche buoni cattolici giustificare la propria pusillanimità chiamandola umiltà, ma tra le due corre una grossa differenza. Un esempio di pusillanimità è dato dalla parabola dei talenti:
«Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. Bene, servo buono e fedele – gli disse il padrone – sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25, 14-30).
Secondo l’interpretazione classica, i talenti rappresentano i doni che Dio affida agli uomini. Uno dei personaggi della parabola «per paura» (particolare importante) ha nascosto il talento che gli è stato affidato sottoterra, non facendolo fruttificare; le conseguenze del suo gesto saranno «pianto e stridore di denti». Così si comporta il pusillanime che non mette a frutto i suoi talenti «per paura»; e la sua ricompensa è, appunto, «pianto e stridore di denti». Per non fare questa fine, sforziamoci di esercitare l’umiltà, cioè di avere uno sguardo reale su noi stessi.
RICORDA
«Quella dell’umiltà, cari amici, non è dunque la via della rinuncia ma del coraggio. Non è l’esito di una sconfitta ma il risultato di una vittoria dell’amore sull’egoismo e della grazia sul peccato. Seguendo Cristo e imitando Maria, dobbiamo avere il coraggio dell’umiltà; dobbiamo affidarci umilmente al Signore perché solo così potremo diventare strumenti docili nelle sue mani, e gli permetteremo di fare in noi grandi cose. […] Come vedete, cari giovani, l’umiltà che il Signore ci ha insegnato e che i santi hanno testimoniato, ciascuno secondo l’originalità della propria vocazione, è tutt’altro che un modo di vivere rinunciatario. Guardiamo soprattutto a Maria: alla sua scuola, anche noi come lei possiamo fare esperienza di quel sì di Dio all’umanità da cui scaturiscono tutti i sì della nostra vita. È vero, tante e grandi sono le sfide che dovete affrontare. La prima però rimane sempre quella di seguire Cristo fino in fondo, senza riserve e compromessi. E seguire Cristo significa sentirsi parte viva del suo corpo, che è la Chiesa. Non ci si può dire discepoli di Gesù se non si ama e non si segue la sua Chiesa». (Benedetto XVI, Omelia in occasione dell’Agorà dei giovani italiani, Piana di Montorso, 2 settembre 2007).