Le sue due colonne possono sostenere o far tremare, colpire o far dibattito. Sta di fatto che sono in molti, anche nella Chiesa, ad attendere (di solito la domenica) quelle due colonne sulla prima pagina del Corriere della Sera: l’editoriale firmato dal politologo Ernesto Galli della Loggia. Che, con le sue osservazioni sempre acute e spesso taglienti, non di rado ha colpito anche i cattolici.
Ad esempio durante le contestazioni del G8 di Genova, quando molti credenti esternarono eccessive utopie no global; oppure in occasione di pronunciamenti ecclesiastici che riguardano la società: allora lo spirito profondo e libero del “laico” Galli della Loggia – che non è credente e dichiara inclinazioni liberali – sa sfoderare analisi insolite ma produttive. Per questo, anche qui, chiediamo proprio a lui come sta l’Italia cattolica.
Professore, si può dire anzitutto che l’Italia è ancora un Paese cattolico?
«Bisogna vedere che cosa s’intende per cattolico… Se stiamo alle ricerche sociologiche, l’osservanza del culto è molto scarsa, intorno al 20%; e questo è l’unico punto di vista misurabile. Quindi l’Italia non è più un Paese in maggioranza cattolico. Poi c’è il campo delle sensazioni, e le mie personali dicono che per certi versi l’Italia conserva ancora un fondo antico di cristianesimo, anche se ormai manca una conoscenza culturale del cattolicesimo anche nelle sue parti più elementari: la maggioranza degli italiani ignora i 10 comandamenti, per esempio».
L’agnostico Benedetto Croce, nel secolo scorso, sosteneva che a qualunque religione apparteniamo «non possiamo non dirci cristiani». Possiamo ripeterlo, oggi?
«Nel senso di Benedetto Croce sì: culturalmente siamo ancora cristiani. Però lui almeno sapeva che cos’era il cristianesimo; oggi invece – potrei sbagliarmi – non credo che questa frase sarebbe ripetuta dalla maggioranza degli italiani: magari si direbbero cristiani, ma cattolici assai meno. Dal punto di vista oggettivo, inoltre, la qualità cristiano-cattolica della società italiana è molto discutibile. Ormai nessuno si pone più nemmeno domande sulla difficoltà di adeguare la fede al mondo moderno: ogni conflitto tra l’una e l’altro viene risolto facendo vincere le mode, passa per buono quel che vuole l’opinione comune. E l’individualismo crescente fa piazza pulita di ogni morale: «se non fa male a nessuno, che male c’è?», si dice. Senza considerare l’ossequio generalizzato ad alcuni miti: come il multiculturalismo, l’uguaglianza di fondo delle religioni, eccetera».
Eppure, tutte le volte che la Chiesa (leggi: i vescovi) parlano di una questione che riguarda la vita politica o sociale italiana, si strilla subito all’«interferenza» e alla «teocrazia». Come mai? Davvero i cattolici hanno ancora tanto potere?
«Tanto gridare allo scandalo (peraltro generato da una ristretta minoranza di politici, giornalisti, editorialisti) è appunto la riprova che non si accetta in nessun modo l’idea di un magistero per indirizzare l’etica o per sovrapporsi alle idee correnti. Il potere della Chiesa? Tutti corteggiano il mondo cattolico, che – nella liquefazione di ogni punto di riferimento politico – è l’unico voto ancora un po’ organizzato. Ma il “potere” finisce lì».
E la fine dell’unità politica dei cattolici, o in sostanza della Dc, è stata un passo avanti per i cattolici italiani, secondo lei?
«Bisognerebbe chiederlo ai cattolici, che su questo tema sono molto divisi. Anch’io, d’altra parte, mi sento incerto. Per certi versi la fine di quella stagione è un male: perché ha spazzato via ogni presenza del cattolicesimo dalla scena pubblica italiana. Ci sono ancora associazioni cattoliche, infatti, ma per l’uomo della strada ormai sono cose clandestine, e questa è una perdita secca. Il segno positivo della fine del partito cattolico, invece, potrebbe essere quello di avere sviluppato una maggiore responsabilità dei cattolici nel determinare il loro impegno pubblico. Anche se ho l’impressione che molti si siano semplicemente ritirati dalla politica, magari indirizzandosi verso il volontariato. Una cosa è certa: la fine della Dc ha sicuramente significato una diminuzione del senso della politica tra i cattolici. Ed è diminuita la visibilità pubblica dei cristiani».
Infatti i cattolici contano sempre meno in molti settori: nell’informazione o nella cultura, che sono da sempre «di sinistra», nell’economia che è «di destra»…
«I cattolici prima stavano al governo. E adesso? Non ci sono più. Preciso: non mi pare che sulla scena italiana siano più una presenza pubblica organizzata, con una denominazione e un’etichetta riconoscibili. In Italia è avvenuto un suicidio del cattolicesimo politico, che è rimasto così convinto delle ragioni dell’avversario da decidere di togliere il disturbo da solo, attraverso la crisi di Tangentopoli. Del resto, qualche colpa è anche del mondo politico cattolico che, pur essendo stato avvisato dell’esistenza di una crisi, non è riuscito in nessun modo a rinnovarsi».
Nei suoi editoriali lei si occupa spesso dei cattolici e a volte «bacchetta» anche la Gerarchia. Quali sono i suoi appunti principali?
«Spesso la Gerarchia cattolica e i cattolici sono culturalmente sottomessi alle opinioni dominanti, di destra o di sinistra, con cui peraltro non hanno nulla a che fare. Ciò fa parte della debolezza culturale del cattolicesimo italiano, che è un dato antico e forse dipende pure dalla mancanza di una “concorrenza” (per esempio quella di altre religioni o confessioni religiose), che stimolerebbe lo sviluppo».
E poi la Chiesa non sempre sa comunicare i suoi messaggi, i suoi valori.
«Basta analizzare tre parametri comuni: l’ora di religione, le omelie e i programmi radiofonici religiosi della sera. Beh, a parer mio sono cose da mettersi le mani nei capelli o da sbellicarsi per le risate, a scelta. L’ora di religione, così com’è abitualmente concepita, a mio giudizio sarebbe da abolire al più presto perché non serve a nulla: non fornisce nemmeno la cultura religiosa di cui gli italiani avrebbero bisogno. Le omelie sono in genere di livello infimo. E i programmi radio sono una melassa buonista, completamente fuori dal registro culturale dei nostri tempi. Così come molta pubblicistica cattolica, d’altronde: dalle copertine dei libri religiosi ai santini. I cattolici sono un mondo a parte, che non ha nessuna possibilità di approccio culturale con l’esterno né di attirare o convincere potenziali fedeli».
A suo parere, dove bisognerebbe darsi da fare?
«Penso che la formazione del clero soffra di una terribile mancanza di cultura storica: i preti non conoscono le vicende del mondo e quindi non sanno più qual è la loro funzione. La soverchiante presenza di discipline sociologiche e psicologiche nei seminari sta annientando la capacità dei cattolici di farsi sentire nella società. Perché anche la storia della Chiesa, fuori da quella del mondo, diventa irreale».
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 42 – 43