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12.12.2024

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Un impero, una liturgia
31 Gennaio 2014

Un impero, una liturgia

 

 

 



Evidenzierò qui i cambiamenti o riforme della Liturgia Romana che annunciarono la sua “universalizzazione”.
Fino a questo momento di cui abbiamo parlato, concordemente con la politica religiosa dell’imperatore franco Carlo Magno († 814), la Liturgia di Roma resta impiantata geograficamente in un ambito molto ridotto che prevede l’Urbe, le diocesi della sua Provincia, le c.d. Suburbicarie, e poco più. Il resto della Cristianità, non solo in Oriente, celebrava la sua fede con riti diversi, anche da quelli tutt’oggi sopravvissuti come l’Ambrosiano o Milanese e l’Ispano-mozarabico.
Sotto l’impulso di Carlo Magno, la Liturgia Romana si trasforma nella Liturgia di tutto l’Occidente, sarà la forma celebrativa del Sacro Impero Romano, poi Germanico, e della sua area di influenza. Un processo che si vedrà potenziato in questa caratteristica di universalità, grazie alla riforma liturgica tridentina e che l’evangelizzazione dell’America, Asia, Africa ed Oceania renderà visibile ovunque.
L’inizio di questa trasformazione è dovuta a un’idea e all’impegno dell’imperatore Carlo Magno, che chiede a papa Adriano un Sacramentario Romano e incarica Alcuino e lo scriptorium di Aquisgrana di copiarlo e diffonderlo per tutti i territori dell’Impero, i quali avrebbero pregato così con le stesse formule e riti, dando unità dottrinale di fede a tutta la compagine imperiale.
Più tardi, nel sec. X – il secolo chiamato di “ferro” per Roma – sarà la grande abbazia di Cluny l’erede di questa missione, poiché confezionò e diffuse questa nuova forma di liturgia romana; e non dimentichiamo che il consolidamento di questa opera liturgica arriverà con la “Riforma Gregoriana” nel sec. XI, sotto la guida di papa san Gregorio VII, antico monaco di Cluny col nome di Ildebrando (nato nel 1028 circa, pontefice dal 1073 al 1085).
In questo caso, benché l’opera di Alcuino e dei suoi monaci possa far pensare ad un gran protagonismo dei “periti” di liturgia (ed evidentemente così fu solo in un primo momento), il compito che fu loro commesso consistette semplicemente nel copiare, e non nel riformare. Successe però che la copia risultò insufficiente: il Sacramentario di tipo gregoriano che papa Adriano affidò a Carlo Magno riguardava le celebrazioni dell’anno liturgico presiedute dal Pontefice, e non conteneva tutto l’Anno Liturgico.
Così sorse il “Supplementum” di Alcuino e così parimenti si spiega la moltitudine di copie dell’altro sacramentario romano, il Gelasiano, che si trovano nei secoli VII e VIII.
Ma siamo realmente davanti ad una “riforma” liturgica del Rito Romano?
La situazione dei regni franchi dopo la morte di Carlo Magno e dell’Occidente europeo ci aiuta a comprendere la necessità di una Liturgia che saldasse tutti coloro che condividevano la stessa fede, e fosse strumento di unità. Carlo Magno, come abbiamo segnalato, non completò l’opera, Cluny la realizzò un secolo più tardi e solo la riforma gregoriana l’assicurò.
Ma non si completò solo ciò che “mancava” nel gregoriano; sotto la guida dei Benedettini e tramite vescovi scelti tra loro, si andò formando, nel corso di due secoli, una liturgia unica, con ricche varianti (unità essenziale e diversi usi locali negli aspetti secondari), molte delle quali sopravvivranno fino al Vaticano II, essendo stati rispettati dalla riforma tridentina dato il loro carattere “più che centenario”.
Si trattò di una vera riforma, perché, senza variare essenzialmente il Canone, né il patrimonio eucologico romano, si cercò di adattare la liturgia romana alle condizioni e necessità dei Paesi dell’intero Occidente europeo. Concretizzando, possiamo elencare gli elementi propri di questa riforma:
1. le rubriche descrittive, per facilitare l’apprendimento della celebrazione in nuove terre e trasmettere il senso di disciplina spirituale;
2. l’aumento dei gesti visibili, per sottolineare la presenza reale e il senso del culto a Dio;
3. il valore concesso al canto e lo spazio che occupa nella celebrazione: è il gran momento dello sviluppo compositivo della tradizione del canto chiamato gregoriano;
4. apertura di un processo graduale di “mimetizzazione” e drammatizzazione, che si rifletté in alcune rubriche, nello sviluppo dei tropi e sequenze e, a partire da queste, in certe drammatizzazioni liturgiche che portarono pure ad alcuni eccessi, soprattutto fuori della celebrazione, ma sempre con un profondo senso del sacro.


IL TIMONE  N. 114 – ANNO XIV – Giugno 2012 – pag. 47

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