A trent’anni della morte, un ricordo di Cesare Angelini, grande critico letterario oggi ingiustamente dimenticato. Innamorato di Manzoni, incarnò in modo egregio le sue due vocazioni: quella sacerdotale e quella poetica.
«Questo Manzoni ci darà da fare per tutta la vita»: la frase, scritta sull’albeggiare di una carriera di prosatore, fu profetica.
Non c’è studente italiano infatti che abbia frequentato le scuole superiori negli ultimi trent’anni e non conosca il commento di Cesare Angelini al romanzo de I Promessi Sposi. Le note vergate dalla mano attenta dell’anziano sacerdoteletterato hanno segnato un’epoca della nostra cultura: veramente, c’è stato un periodo durante il quale l’istruzione nelle scuole cattoliche ha coinciso con l’immedesimazione nel romanzo di Renzo e Lucia; e quanti preti hanno trovato tra le pagine manzoniane gli spunti per ammonimenti che toccavano il cuore, per divagazioni piene di affetto e di saggezza!
Ora che quell’epoca è finita (la scuola, almeno dal 1995, è qualcosa d’altro) celebriamo non senza un po’ di elegia una delle figure maggiori di quei giorni: Cesare Angelini, del quale ricorre il trentennale della morte. Ricordarlo è ricordarsi che il passato non è mai del tutto passato bensì è presente al cospetto di Dio.
Una vita tra le parole e la Parola Nato ad Albuzzano (Pavia) il 2 agosto del 1886 da genitori contadini, di cui era il sesto figlio, Angelini venne ordinato sacerdote nel 1910. Mandato a Cesena, fu per cinque anni professore d’italiano in seminario: qui frequentava quasi quotidianamente il critico Renato Serra. Partecipò al primo conflitto mondiale come cappellano degli alpini; in missione in Albania, accostò la realtà spirituale mussulmana propria a quei luoghi e con l’aiuto del Muftí imparò a leggere il Corano. Una volta concluse le ostilità, tornò a Pavia dove proseguì nell’attività d’insegnante.
Nel ’32 compì il primo pellegrinaggio in Terrasanta, che gli lasciò un segno indelebile. Nel ‘39 Angelini diveniva rettore dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia (tra i più antichi d’Italia), carica che terrà sino al ‘61. Per anni, partecipò ai corsi della “Pro Civitate Christiana” di Assisi, insieme ad insigni studiosi tra i quali Giovanni Papini, Silvio D’Amico, Piero Bargellini, Daniel Rops, Nazareno Fabbretti; nel ‘52 gli fu conferito il titolo di monsignore, e nel ‘64 la laurea in Lettere honoris causa all’Università di Pavia. Morì il 27 settembre 1976.
Il critico G. Bàrberi Squarotti di lui ha detto: «finissimo descrittore di paesaggi, evocatore di stati d’animo d’una religiosità resa idillica da una contemplazione assidua e meravigliata della natura. Il suo interesse e la validità di scrittore consistono nell’eleganza sottile e precisa del suo stile, nella sua parola ammorbidita e pure intensa, nella grazia con cui sa precisare sentimenti, notazioni d’ambiente e di paese estremamente labili e ardui a essere fissati senza che se ne perda il delicato sapore». Fatto più unico che raro, questo sacerdote-prosatore pubblicava su testate illustri come La Voce di De Robertis, e firmava elzeviri per Il Resto del Carlino e Il Corriere della Sera. Tra l’altro curò, per il laicissimo Einaudi, commenti ai Vangeli, agli Atti degli Apostoli, all’Apocalisse, a Il Cantico dei Cantici.
Con Renzo e con Lucia (e con altri) Un prete tra fede e belle lettere, dicevamo. Angelini incarnò e visse in modo egregio le due “dignità” alle quali fu vocato, quella sacerdotale e quella poetica. Oggi i suoi libri non si trovano più: giacciono dispersi chissà dove, dimenticati come quei ricordi che vanno sbiadendo dalla memoria, senza averne colpa.
È questo uno dei segni dei tempi. Perché quei testi erano preziosi, erano dei pegni, testimonianze del fatto che l’amore di Dio favorisce gli uomini in tutte le loro aspirazioni al bene, anche nelle passioni poetiche. Se volessimo alimentare il nostro animo con nutrimenti ben diversi da ciò che offre oggi la carta stampata, dovremmo recarci in biblioteca e pescare quasi a caso nell’indice di Angelini: primo, i Commenti alle cose (Alba, 1925), un libretto di gratitudine al mondo perché esiste, coi suoi conforti e i dolori inevitabili, i mesi i giorni gli anni, una piccola fonte di riconoscenza per tutto ciò che esce dalle mani del Creatore. Nella prosa angeliniana, l’immagine fondamentale è appunto quella del “dono”: tutto appare come regalato, gratis. Poi, consiglierei L’osteria della luna piena (Scheiwiller, 1962): paginette dorate sull’amato Manzoni, come quei due capitoli dedicati a Renzo nelle osterie e poi in fuga verso l’Adda, in una umile odissea lombarda dalla quale il Tramaglino esce incolume, e prega, e sogna “una treccia nera e una barba bianca”, e offre l’elemosina a chi è più povero di lui. Infine, passerei a Questa mia Bassa (e altre terre) (1992), un’antologia di appunti nei quali l’autore mostra che una cosa sola è necessaria, in questo pellegrinaggio della vita: radicarsi nel cuore di Gesù Cristo. Vi descrive tutti gli affetti, dalla matura rimembranza della propria prima età («Dio che rallegri la mia giovinezza») sino a un viaggio in Terrasanta sentito come indimenticabile passaggio del Signore nella propria personale esistenza, qui e ora come là e allora.
Dieci anni prima di morire, Cesare Angelini scrisse La vita di Gesù narrata da sua madre e la offrì a un’associazione che si prendeva cura delle famiglie degli operai di una grande fabbrica torinese; in anni di piombo, chissà quali rinnovamenti, quali conforti segreti possono essere avvenuti anche grazie a parole di fede pronunciate al momento giusto… È bello pensare che qualcuno sia tornato alla casa del Padre magari proprio perché toccato nell’intimo da quelle parole che il prete-letterato immagina dette da Myriam di Nazareth nei confronti di suo Figlio (e che suonano di ammonimento a tutta la società contemporanea): «Lo riconoscevo da lontano dal copricapo di lana rossa che io gli avevo cucito; o dal suono della zampogna su cui zufolava un motivo paesano, il suo preferito: Ho suonato il flauto, e voi non avete ballato; ho cantato canzoni lamentevoli, e voi non avete pianto».
RICORDA
«Il fatto più imponente nel mondo dei Promessi Sposi è quello della Provvidenza […] il motivo che opera senza interruzione, il filo che non si spezza mai, e suscita, pur nei momenti più bui, una ridente speranza, una riposata fiducia. C’è sempre qualcuno lassù che vede e provvede, che sa quello che fa, e c’è per tutti, specialmente per i poveri, la solenne certezza su cui riposa la forza del libro; che prende perciò respiro ampio, movimento di poema. Fu detto che il modo di essere religiosi dei Promessi Sposi non appartiene al cattolicesimo, ma alla pietas d’ogni tempo e forma (Eugenio Levi). E niente è meno esatto. Il mondo manzoniano è naturalmente cattolico […]. Il cattolicesimo del Manzoni è così legato a un sicuro complesso di materia tridentina che è impossibile non vederlo».
(Cesare Angelini, Pagine critiche, p. 253).
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 52 – 53