I vescovi e le città all’inizio del Medioevo. Nell’epoca drammatica del finire dell’Impero romano, i vescovi della Chiesa cattolica suppliscono l’assenza dell’autorità civile, ormai dissolta, governando le città, difendendo i poveri e operando per la giustizia.
“Che cosa è una sentinella? Sentinella si dice chi, da un luogo elevato, vigila per il suo popolo, perché non abbia a soffrire improvvise incursioni nemiche e goda tranquilla pace per la sua sollecita vigilanza […]. Ma se invece, arrivando il nemico la sentinella non vi badasse, facesse finta di non vedere, se ne stesse zitta, allora la patria impreparata verrebbe invasa e sarebbe in balia del nemico. Allora tutta la colpa sarebbe di colui che non volle parlare per salvare tanta gente, ma tacendo rovinò se stesso insieme con gli altri. Queste sentinelle stabilite dal Signore chi sarebbero se non i beatissimi vescovi? Posti in posizioni di alta sapienza per la sicurezza del popolo, essi scorgono dall’alto l’approssimarsi dei mali”. Così, commentando un passo di Ezechiele, Massimo I, vescovo della Chiesa di Torino, annunciava agli inizi del V secolo l’invasione dei goti di Alarico. Il presule poneva in evidenza la funzione magisteriale connessa al ruolo episcopale, ma accennava anche all’opera di vigilanza e di sostegno alla vita della città che era divenuta consuetudine nell’azione dei vescovi in Occidente. Un profondo legame si era infatti progressivamente stretto tra i vescovi e la popolazione delle città, da quando l’imperatore Costantino con l’Editto di Milano (313) aveva stabilito la libertà di culto in tutti i territori dell’Impero.
La pace religiosa aveva favorito un rapido sviluppo delle comunità cristiane e delle strutture ecclesiastiche, che si erano modellate sul preesistente tessuto civile realizzando una significativa integrazione con il mondo romano; i vescovi ricevettero importanti riconoscimenti dal potere civile e iniziarono a godere di grande autorità presso tutti i cittadini, anche di coloro che professavano diverse convinzioni religiose. Colti testimoni del Vangelo, molti presuli non si accontentavano di svolgere una funzione meramente spirituale e magisteriale; sapevano invece entrare a contatto diretto con la vita delle popolazioni e misurarsi con le necessità imposte dai tempi. Lo confermano le fonti del tempo che qualificano occasionalmente il vescovo come dux belli (comandante militare) e più diffusamente come pater et rector urbis, pater patriae, pater populi o come defensor civitatis (una magistratura civile romana).
Mentre nell’Impero di Occidente dilagava una crisi economica dai toni drammatici, aggravata da un fiscalismo esasperato, i vescovi richiamarono all’obbligo della giustizia, biasimando apertamente quei funzionari pubblici che, mentre riscuotevano le imposte, approfittavano della propria posizione: Pietro Crisologo di Ravenna esortava gli esattori del fisco a non richiedere “nulla di più di ciò che è legittimo, perché chi richiede di più non è esattore di tributi ma di frode”.
Alla prepotenza dei ricchi ceti cittadini, preoccupati di salvaguardare il proprio patrimonio e le comodità del vivere anche a spese dei meno abbienti, i vescovi opponevano la assoluta necessità della giustizia. Ecco allora Ambrogio di Milano raccomandare al confratello Costanzo di custodire il tesoro della fede, in modo da non restare turbato dalle tempeste del mondo, da saper efficacemente ammonire il popolo, da produrre opere buone e da conservare inviolati i tradizionali confini delineati dalle leggi. In modo del tutto simile Ruricio, vescovo di Reims, esortava i propri confratelli a impegnarsi nello studio e nella predicazione della verità, a costruire la pace, a cercare la pubblica utilità, difendendo i deboli e gli innocenti contro i soprusi dei funzionari corrotti. San Girolamo, sul volgere del IV secolo, proponeva identiche preoccupazioni e sollecitava i vescovi ad essere padri e non padroni.
Le funzioni assunte nel Tardo Impero furono registrate anche dalla liturgia che, celebrando la memoria di vescovi santi, li paragonò all’immagine evangelica del buon pastore, difesa di orfani, vedove, poveri che non trovavano più assistenza e giustizia presso le sempre più deboli e latitanti magistrature cittadine.
Pur sapendo che avrebbero potuto pagare di persona le violenze perpetrate dai barbari, in genere i vescovi non lasciarono le città, nemmeno quando gli abitanti più ricchi e potenti le abbandonarono per rifugiarsi in luoghi ritenuti più sicuri. Restarono e fecero raccogliere le derrate in siti fortificati, organizzarono i turni di sentinella e la ricostruzione delle difese crollate. Da Massimo di Torino, a Lucifero di Cagliari, ad Alypio di Tagaste, pur in modi e forme diverse, è un persistente ribadire la necessità che il vescovo resti vicino al suo popolo e lo conforti con la sua presenza.
Per sostenere la sempre più rilevante opera di supplenza, la legislazione ecclesiastica del tempo stabilì di impiegare parte dei redditi del cospicuo patrimonio delle chiese cittadine nel sostentamento e nella carità per i poveri e i pellegrini, nell’accoglienza dei fuggiaschi che dalle campagne cercavano protezione in città, nel riscatto dei prigionieri. Con le risorse a loro disposizione i vescovi diedero vita a opere rilevanti: a Vercelli fu costruito un acquedotto che servisse l’intera città; nuovi luoghi fortificati vennero eretti a Novara, a Spoleto e a Treviri, presso la Mosella, dove accanto al castrum si predisposero anche un mulino, una vigna e un frutteto; a Piacenza il vescovo Sabino organizzò i lavori per la sistemazione degli argini del Po; Frediano, vescovo di Lucca, si occupò delle piene del fiume Serchio.
Quando nel 554 l’imperatore Giustiniano con la Prammatica Sanctio legittimò le funzioni pubbliche dell’istituto vescovile, non fece che riconoscere uno stato di fatto, maturato spontaneamente nell’ambito delle città romane. Non si trattava però di un punto d’arrivo; mentre tramontava l’età antica le migrazioni e lo stanziamento dei popoli germanici nelle terre dell’Impero avevano posto nuove sfide ai vescovi, “le sentinelle stabilite dal Signore”. Gli aggressori di un tempo erano divenuti infatti il prossimo al quale indirizzare la buona novella e con cui favorire una fusione culturale. Per i vescovi e per la Chiesa d’Occidente si apriva una nuova stagione missionaria.
RICORDA
«La caduta dell’impero non aveva intaccato le risorse spirituali della Chiesa, anzi, sotto certi aspetti, esse si erano rafforzate, poiché adesso la Chiesa poteva unire alle proprie tradizioni spirituali quelle sociali della civiltà romana e così svolgere una duplice funzione, in una società che aveva bisogno d’una direzione e sociale e religiosa. I nuovi regni barbarici s’erano impadroniti delle leve di comando militari e politiche dell’impero – portavano la spada, riscuotevano le imposte, amministravano la giustizia (o ciò che ne aveva preso il posto) – ma tutto il resto apparteneva alla Chiesa: autorità morale, istruzione e cultura, prestigio del nome romano e cura del popolo. La vera qualità di cittadino non si basava sulla sottomissione allo stato barbarico, ma sulla appartenenza alla Chiesa cristiana, ed era al vescovo e non al re che si guardava come alla guida della società cristiana».
(Christopher Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, Bur, 1997, pp. 41-42.
BIBLIOGRAFIA
Di grande utilità per le informazioni riportate, anche se ormai datato, il contributo di S. Mochi Onory, Vescovi e città (sec. IV-VI), Zanichelli, Bologna 1933; si veda inoltre il più recente C. Violante, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia centro-settentrionale nel medioevo, Accademia nazionale di scienze e lettere, Palermo 1986, pp. 7-23; 25-62.
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 26 – 27