Una proposta di lettura degli straordinari eventi che hanno visto la rinuncia di un Papa e l’elezione del successore. Il filo rosso è la nuova evangelizzazione. La dottrina di sempre offerta all’uomo del nostro tempo bisognoso di salvezza
Credo che in questi ultimi mesi ci sia stato dato di vivere una situazione straordinaria di cui non siamo ancora del tutto consapevoli, una sorta di svolta della quale non siamo ancora in grado di valutare le conseguenze.
Intendo riferirmi a quello che è successo ai vertici della Chiesa ma anche, di riflesso, tra i fedeli. Alle dimissioni di Papa Benedetto XVI, alla elezione di papa Francesco. A quella sorta di ondata prima di stupore e di timore che si è sparsa nella cristianità per un pastore che lasciava, e poi a quell’altra ondata di gioia e di sorpresa che si è come sollevata nel popolo di Dio, ma anche nel mondo, e che non sappiamo fin dove porterà. Anche se i frutti sembrano già buoni.
I mass-media del mondo intero si sono naturalmente gettati tutti avidamente sul succulento boccone rappresentato da questa concatenazione di eventi straordinari, sottolineando, per esempio, ma talvolta anche enfatizzando all’eccesso, le differenze di temperamento tra i due papi. Come se l’uno, il nuovo, fosse finalmente quello “giusto” rispetto all’altro che, evidentemente, se non proprio sbagliato, era stato quanto meno, non proprio giusto. Per chi ama la Chiesa e sa come in essa agisca lo Spirito che la conduce in mezzo ai marosi della storia, queste letture un po’ troppo superficiali sono fonte di sofferenza. Tuttavia, credo anch’io che ci troviamo davanti a una svolta, con una differenza però: il nuovo di oggi, apparso all’orizzonte quasi all’improvviso, può essere tale proprio perché può appoggiarsi sul vecchio di ieri, in un disegno del quale, mano a mano che il tempo passa, si svela la trama provvidenziale.
Inizierei da due eventi che mi sembrano andare in questa direzione e che dunque possono esserci utili per capire.
Il primo è costituito dalle dimissioni inaspettate di Benedetto XVI. Credo che oggi, alla luce di quanto è successo dopo, sia più facile capirne le motivazioni profonde. Ad esse, infatti, hanno contribuito certamente l’età con i suoi acciacchi e limiti. Ma forse questa non è la sola e neanche la più importante spiegazione. Credo, infatti, che ci sia da pensare anche a una sorta di suggerimento interiore raccolto e portato a compimento: la consapevolezza di aver dato quanto poteva, accompagnata, forse, dalla intuizione di una svolta di cui si stava profilando la necessità e l’urgenza e di fronte alla quale egli doveva mostrarsi disponibile. Ci può indurre a questa riflessione il fatto che il Papa stesso abbia voluto chiarire che quel suo gesto non era un abbandono per risparmiarsi fatiche, come qualcuno ingiustamente e crudelmente pensava, ma la risposta ad una chiamata che gli giungeva dall’alto ad essere nella Chiesa in un modo altro, non più nell’azione ma nella preghiera.
Ma c’è un secondo evento che sembra anch’esso muoversi nella medesima direzione. E sono le modalità che hanno riguardato sia l’elezione di Benedetto che quelle di Francesco. Dalle indiscrezioni di quanto è avvenuto nei due conclavi, sappiamo infatti che in quello del 2005 c’erano in ballottaggio sia Ratzinger che Bergoglio e che fu quest’ultimo a chiedere di uscire dalla corsa dando così via libera al primo. Alla luce di quanto poi è avvenuto nell’ultimo conclave (e cioè che proprio Bergoglio sia stato il prescelto) è davvero del tutto surreale pensare che ci sia qualcosa di provvidenziale nell’alternarsi di queste due persone e che, dunque, gli otto anni ratzingeriani rivestano un significato che va oltre i semplici piani umani? O, detto in altre parole: il papato del teologo Ratzinger è stato anche una sorta di preparazione al papato del pastore Francesco?
Ma c’è un altro elemento che può aggiungersi a questa nostra riflessione. È il fatto che Bergoglio è il primo Papa che non ha vissuto direttamente il Concilio, mentre Ratzinger, che neanche lui era ancora vescovo all’epoca, vi ebbe parte, e anche di molto rilievo, prima come segretario del cardinale di Colonia e poi come perito conciliare. Ed è proprio a quell’allora giovane teologo tedesco, e all’apprezzamento che egli raccoglieva, che si deve in gran parte il radicale cambiamento di prospettiva del Concilio, rispetto agli schemi preparati dalla Curia. Se lo ricordino coloro che per anni lo hanno considerato un insopportabile reazionario.
Ma sappiamo bene come il ruolo del teologo Ratzinger non si sia limitato a questo perché, fatto vescovo e poi cardinale, fu ben presto chiamato da Giovanni Paolo II addirittura ai vertici di quell’organismo che vigila sulla correttezza del credere cattolico che è la Congregazione per la Dottrina della Fede. In anni che sappiamo essere stati molto difficili perché, anche questo lo conosciamo molto bene, il post Concilio prese una piega assai pericolosa, che non solo svuotò seminari e istituti religiosi, ma rischiò di mettere in discussione tutto, dai fondamenti della fede fino alla liturgia e alla stessa morale. Così Ratzinger, prima accanto a Giovani Paolo II, poi come Papa egli stesso, per lunghi anni ha lottato, sempre con chiarezza, con fermezza ma anche con rispetto e dolcezza, proprio perché non venisse tradito quel concilio per il quale si era battuto. Lo ha fatto attraverso il magistero ufficiale ma pure con il suo continuo lavoro di studioso, anche una volta salito al soglio pontificio, producendo fino all’ultimo – e speriamo non abbia ancora finito – quei suoi preziosi libri che hanno aiutato molti a “capire” quale fosse davvero la prospettiva cristiana, anzi pienamente cattolica. Sappiamo i tanti nodi che ha dovuto affrontare e sciogliere fino a quello recente e terribile della pedofilia che aveva raggiunto e intaccato parte del clero con coperture, omertà e conseguenze pastorali davvero devastanti, che l’anziano Papa ha affrontato con decisione e trasparenza estreme.
Se, dunque, volessimo a questo punto tentare una sorta di bilancio non solo del pontificato di Ratzinger ma di tutta la sua vita, credo che potremmo dire che egli sembra davvero essere stato chiamato dalla Provvidenza a svolgere un ruolo fondamentale attorno a quel grande evento religioso che ha caratterizzato il XX secolo e cioè al Concilio, accompagnandolo nel suo nascere e poi anche, dopo, nelle sue conseguenze positive e negative a livello ecclesiale. Vegliando e dandosi concretamente ed efficacemente da fare affinché i semi gettati potessero sviluppare frutti sani e maturi. E che il suo ritiro dalla scena pubblica coincida in fondo con una sorta – finalmente – di “pacificazione” perché i nodi essenziali sono stati affrontati e, quantomeno, avviati a soluzione. Perché se è vero che ci sono certamente altre cose da portare a compimento, credo che nessuno potrà negare che la Chiesa che Ratzinger ha lasciato è una Chiesa che, dopo anni di bufera (e, va detto, dopo lo straordinario quarto di secolo di Giovanni Paolo II) ha finalmente iniziato a ritrovare se stessa sul piano della fede, della liturgia, dell’esegesi, come della morale. Una Chiesa che, uscita dall’illusione di un facile incontro con il mondo e con la cultura moderna, che l’aveva spesso portata a diventarne succube, ora è consapevole della sua immensa ricchezza che va vissuta al proprio interno e proposta all’esterno, ma non certo sprecata: perle da non gettare ai porci, per attenerci al vangelo.
Forse proprio per tutto questo ora può davvero iniziare l’epoca di Francesco. L’epoca di un Papa soprattutto pastore – ma che quanto alla dottrina è allineatissimo con Ratzinger – che, proprio perché ha dietro di se una Chiesa più consapevole di se stessa, ora può puntare soprattutto all’esterno, può puntare sul dialogo con quel bisogno di Dio che sta al fondo di ogni uomo. Un uomo che frattanto, proprio in questi ultimi anni, soprattutto in questo nostro Occidente ormai in piena crisi, sta rendendosi conto che le promesse della scienza e della politica di felicità e progresso senza limiti non sono né possibili né veritiere. E che dunque nulla potrà davvero rispondere ai bisogni d’amore assoluto del nostro cuore e di senso all’esistenza, se non l’incontro con Dio e con la sua infinita misericordia.
E se la Provvidenza ci ha inviato questo Papa e se i suoi primi mesi di pontificato sembrano riscuotere tanto successo proprio in termini di riavvicinamenti alla fede, questo forse può voler dire anche altre cose. Per esempio, che quella nuova evangelizzazione di cui tanto si è parlato alla fine è assai più agevole di quel che si credeva e che si andava elaborando con piani complicati. E questo perché essa, forse, consiste essenzialmente nel portare con semplicità e dolcezza, ma anche con convinzione forte e con coerente testimonianza, l’annuncio evangelico di sempre. Consiste nel lasciarsi alle spalle le dispute clericali per ripartire verso il mondo con l’entusiasmo e la fede dei primi discepoli, consci che è lo Spirito l’agente principale e ognuno di noi è solo, al massimo, uno spargitore di semi.
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 56 – 57
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