È la bandiera italiana, va rispettata. Ma ha una storia non sempre esemplare. Venne sventolata per la prima volta durante l’occupazione francese. Da italiani filo giacobini che uccisero altri italiani. Conoscere la verità storica è necessario per mostrare, oggi, un tricolore non ideologico
Gli insorgenti
Chi erano e da dove venivano costoro, di cui ben poco si sa?
Dopo l’irruzione delle armate rivoluzionarie al di qua delle Alpi, se le idee politiche della Rivoluzione dilagano e il potere francese s’impone senza trovare contrasto da parte delle élite italiane – nobili e aristocrazie ecclesiastiche – troppo “infrancesate” o troppo prone alla potenza militare francese, essi non trovano uguale accoglienza fra la gente comune. In effetti, per migliaia di umili italiani delle centinaia di villaggi e comunità piccole e grandi che costellano la Penisola, viceversa, l’invasione francese non è il semplice passaggio da una corona a un altra, ma il dominio di una nazione moderna, intenzionata a imporre i propri paradigmi politici e culturali. Paradigmi che prevedono la liquidazione manu militari dell’ordine antico, con le sue gerarchie ma anche con le sue libertà concrete, con la sua sacralità forse onnipervadente, ma in cui la vita individuale trovava i suoi riferimenti ultimi e pacificanti. Un ordine, forse consunto, ma di cui non si vedeva certo alternativa nell’astrattezza dei roboanti e minacciosi proclami “giacobini”. Nasce di qui la determinata, tenace e non di rado azzardata, volontà di reagire e di resistere da parte dei ceti umili, in una vera e propria guerra di popolo, fatta di insurrezioni spontanee, di azioni partigiane, di operazioni di milizie territoriali – le cosiddette “masse” – e di formazioni volontarie o anche di bande. E la presenza d’italiani su entrambi i versanti – come dolorosamente accadrà all’incirca centocinquant’anni dopo – trasformerà questa resistenza in una ventennale guerra civile, con tutti gli orrori che a essa di norma si associano.
La “Cispadana”
La Legione Cispadana sarà protagonista della primissima fase di questa guerra. Nel periodo della sua breve esistenza (ottobre 1796-giugno 1797) sarà impiegata contro la Garfagnana – la valle, ora lucchese, parallela alla costa apuana e versiliese dove scorre il fiume Serchio – insorta in nome del Duca di Modena deposto. Poi, quando i francesi iniziano a minacciare il confine pontificio settentrionale, contro la rivolta esplosa in Romagna e nel Montefeltro, mentre nella primavera del 1797, allorché Bonaparte minaccia la Terraferma veneta, contribuirà alla repressione dell’insorgenza delle valli bergamasche e bresciane del “Viva San Marco”. Nonostante marci sotto il tricolore, in alcune operazioni – come accade in tutti i frangenti di scontro civile – il comportamento della Legione non sarà dei più adamantini. Infatti – come ricorda il bel lavoro di Virgilio Ilari sulla storia militare del Triennio Giacobino –, nei pressi di Bologna, nel tratto tra Barberino e Loiano, un centinaio di questi rivoluzionari si diedero al saccheggio in particolare nella località Santa Maria dei Boschi. Poi i guerriglieri della Legione si spostarono lungo il confine pontificio, dove nel febbraio del 1797 si specializzarono, in Romagna, nei furti di bestiame e nelle rapine contro la popolazione locale, addirittura costringendo Napoleone a richiamarle e a minacciarle di severe punizioni. Da qui si sposteranno verso Ancona, quindi raggiungeranno Macerata, dove presero parte al massacro di S. Elpidio, con 136 vittime senza contare le successive fucilazioni. Dopo queste prestazioni, si sposteranno nelle valli orobiche insorte. Qui, il 1° aprile, parteciperanno alla strage di Cennati, in Val Sabbia, dove neppure uno degli insorgenti fu risparmiato, mentre il giorno successivo, a Trescore, uccisero tutti i maschi e diedero alle fiamme il paese. Il 3 aprile, infine, conquistarono Nembro.
La “frattura napoleonica”
Certo, l’“esperienza napoleonica” è per l’Italia una prima esperienza di modernità politica, ma è altresì un’epoca di grave crisi, di profonda spaccatura, di conflitto civile – ahimè non l’ultimo – ad alta intensità, che non sarà privo di strascichi e di ferite.
Gli albori del processo unitario, lo si voglia o no, s’intrecciano con una operazione d’impianto di tessuto nuovo ed eterogeneo nel tessuto nazionale che ne provoca la lacerazione. Se ci si pone fuori da queste coordinate reali, se si fa credere che da Reggio Emilia sia iniziata, invece che una guerra civile, una sorta di marcia trionfale, qualunque lettura di quel periodo, soprattutto se svolta nella prospettiva di capire il successivo Risorgimento, si rivela insufficiente e fuorviante: ed è purtroppo quello che sembra profilarsi in questo anno di celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità.
Se è vero che dall’esperienza napoleonica germina tutta una tradizione politica, che giunge fino a noi e tuttora dà impronta e tono alle nostre istituzioni politiche e amministrative, non si deve dimenticare che di lì scaturisce anche la vena di disagio, lo spirito di opposizione, l’atteggiamento di renitenza e resistenza a tutto quanto di quell’esperienza si propone, direttamente o indirettamente, come erede e continuatore, che pure caratterizza l’Italia contemporanea. La nazione italiana che si forma nell’Ottocento e nel Novecento attinge di fatto anche a questo filone, che potremmo chiamare “continuista” e che più radicalmente si oppone, in forma implicita – almeno dopo la morte dell’ultimo “brigante” –, a chi si pone in totale antitesi al paradigma nazionale più antico e genuino. A quella genia, cioè, di utopisti “laici” – da Mazzini a Eugenio Scalfari – per i quali l’Italia non è mai “il Paese che sognavamo”. Una minoranza influente, che riuscirà a occupare ampio spazio al vertice della nazione, mentre il filone che deriva dalla sconfitta degl’insorgenti rimarrà maggioritario alla sua base.
Il Tricolore, oggi
Tuttavia, questa prospettiva non è l’unica e non deve arrogarsi il diritto di monopolizzare le altre “vene” che hanno contribuito, ciascuna a suo modo, alla formazione dell’Italia contemporanea. Se la Repubblica Italiana innalza oggi il tricolore, non è perché vede in esso una “bandiera politica”, come fu agli albori, quando lo innalzava chi ammazzava la povera gente di Sant’Elpidio o delle valli di Bergamo, ma perché rappresenta gl’italiani di tutti gli orientamenti. E tanta gente lo ha capito ed è morta e continua a morire alla sua ombra. Per esempio, ai nostri giorni, in Afghanistan. Fare riferimento come fondamento della nazione italiana solo a una lettura parziale, se non intenzionalmente omissiva, del passato, come quella tipica di quella tradizione che da Reggio Emilia si diparte, escludendone il decisivo rovescio di medaglia, non è né corretto né salutare.
IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 28 – 29
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