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12.12.2024

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Una guerra contro la civiltà cristiana. Intervista a mons. Luigi Negri
2 Aprile 2014

Una guerra contro la civiltà cristiana. Intervista a mons. Luigi Negri

Non soltanto il costo di milioni di vite, ma anche la scomparsa di una civiltà, travolta da un evento catastrofico che pochi si sarebbero aspettati. Fu questo l’esito del conflitto, dice mons. Luigi Negri, che ricorda anche la contemporanea, splendida testimonianza di santità del beato Carlo d’Asburgo

Il 28 giugno del 2014 ricorrerà il centesimo anniversario dell’attentato di Sarajevo, la scintilla che fece scoppiare una guerra che chiamiamo “grande” per lo spaventoso spargimento di sangue, ma la Grande Guerra fu tale anche per la portata devastante che ebbe sulla cristianità occidentale, che ne uscì annientata. Oggi, a un secolo di distanza, occorre superare i pregiudizi anche fra i cattolici che oscurano certi personaggi e certi momenti a vantaggio di altri personaggi e di altri momenti che non meriterebbero nessuna esposizione. Ce lo ricorda Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara Comacchio, al quale abbiamo chiesto quali sono stati i reali motivi del conflitto che è partito dall’attentato dell’Arciduca Francesco Ferdinando.
«Io credo che la circostanza per scatenare un conflitto si sarebbe potuta trovare in molte altre vicende, perché la guerra “doveva” essere fatta. Doveva perché la logica dei grandi totalitarismi che si profilavano all’orizzonte, allora rappresentati da grandi Stati nazionali protesi all’egemonia sull’Europa e, a partire dall’Europa, sul mondo, come poi effettivamente accadde, riteneva che non si potesse più continuare con quel sostanziale galateo di rapporti fra Stati fortemente antagonisti, ma operanti ancora in un contesto in cui non si arrivava tanto facilmente a un conflitto globale. C’erano state le guerre per il Risorgimento e altre contese, ma tutto a carattere regionale. Qui si voleva far finire non soltanto un regime o una serie di regimi: si voleva far finire un sistema di carattere culturale nel senso forte della parola. Si trattava di quel sistema descritto da Giovanni Paolo II, fondato su un’antropologia, un’etica, una logica dei rapporti all’interno del popolo, una logica nella funzione e nell’esercizio delle proprie responsabilità che, magari in modo formale, faceva ancora riferimento alla Chiesa e alla difesa del bene comune. Ecco, tutto questo doveva finire, essere spazzato via da quella Realpolitik che, non a caso, raggiunse i suoi vertici nella Germania dei Kaiser e che poi divenne “il” regime, il regime del potere assoluto che domina, o crede di poter dominare, tutti gli aspetti della vita personale e sociale. Ci si accorse qualche decennio dopo che questo potere politico sostanzialmente era dipendente da altri poteri, ma questa è un’altra storia…».

Come è cambiato il Vecchio Continente? Possiamo dire che ci sono delle conseguenze di cui vediamo i segni ancora oggi?
«Io ricordo di aver letto un libro di un sociologo francese intitolato brutalmente 1914: un mondo che abbiamo perduto. Sostanzialmente è venuto a galla in maniera matura, compiuta, dopo anni di incubazione, fughe in avanti di rivoluzioni, fughe all’indietro di rivoluzioni tradite, secondo le formule che dicono tutto e non dicono niente di certa storiografica positivistico marxista, la modernità matura. Si poteva costruire sulle rovine di una realtà umana, religiosa, sociale e storica di cui la Prima Guerra mondiale scrisse l’atto di morte? Che cosa è rimasto? Lo abbiamo sotto gli occhi: un grande sconcerto umano, culturale, socio-politico, poiché questo ordine, questa pace che doveva essere garantita dalla Società delle Nazioni fu solamente un intermezzo per arrivare all’orrore del nazismo e del comunismo, alla seconda ben più terribile Guerra Mondiale, all’insignificanza culturale e socio-politica dell’Europa.
In questa tragedia, nel suo approssimarsi inesorabile, aveva ragione Hegel nel dire che la storia ha una sua logica inesorabile. Tuttavia, noi cristiani dobbiamo ringraziare il Signore Gesù Cristo perché in questo andare verso il buio, il buio di Auschwitz che diventa l’immagine di questo totalitarismo nichilistico che si realizza, la Santa Chiesa è stata l’unica grande difesa di Dio, dei diritti della persona, di un modo di vivere che non accettava di essere rapidamente e terribilmente inquadrato dentro le masse marcianti e vocianti dei vari totalitarismi. Credo che se i cristiani, soprattutto gli intellettuali cristiani, facessero uno studio serio della storia della Dottrina Sociale cattolica dal 1914 fino alla fine del grande pontificato di Pio XII, troverebbero un tipo di disamina storica e critica e una prospettiva di maturazione di una società nuova che sono realmente stati profetici».

In questo contesto matura la straordinaria testimonianza di Carlo d’Asburgo (1887-1922), ultimo imperatore d’Austria-Ungheria. Un sovrano che disse no all’uso dei gas letali contro il nemico, contestando gli ordini di chi li voleva adoperare sul fronte orientale, e si oppose strenuamente alla guerra. Un figlio della sua epoca?
«La fede per secoli fu vissuta come forma “totalizzante” la vita delle persone e delle realtà sociali, prima fra tutte la Chiesa, non certo nel senso chiuso e statico e violento cui ci hanno abituato le ideologie moderne con i loro tragici totalitarismi. Ma una forma di vita che, fornendo alla persona un’innegabile esperienza di unità culturale, consentiva alla vita personale e sociale di modularsi secondo il ritmo di un’autentica responsabilità, appunto personale e sociale. Fino alla rottura dell’unità religiosa dell’Europa e alla nascita e allo sviluppo del laicismo moderno, il vero e adeguato soggetto della storia fu il popolo cristiano, nella sua originalità di esperienza storica e quindi di cultura e iniziativa sociale. Da esso nasce un movimento che crea cultura e, di conseguenza, civiltà. È questo il contesto dell’impero asburgico che, in modo particolare, certamente non previsto e altamente drammatico, Carlo eredita dai suoi antenati. In tale contesto, la sua figura, la sua personalità, il suo cammino di fede e di impegno civile si è potuto attuare. Carlo fu innanzitutto un testimone, un testimone non di una progettualità culturale, sociale e politica compiuta, ma un testimone della fede, quella fede che, se è tale, come ci ha insegnato Papa Giovanni Paolo II, non può non diventare fonte di cultura e quindi di impegno sociale».

Beatificato da Giovanni Paolo II il 3 ottobre del 2004, Carlo d’Asburgo fu un sovrano coraggioso, padre e marito attento, cristiano autentico. Nella Positio super virtutibus si legge che mentre era con le sue truppe «logorò totalmente, recitandolo in segretezza, il rosario d’oro che portava sempre con sé, così che in seguito la giovane arciduchessa dovette procurargliene uno nuovo». Possiamo definirlo un grande modello di laico cristiano?
«Sì, certo: Carlo d’Asburgo è stato un grande laico cristiano: in qualche modo ha significativamente anticipato quella indimenticabile definizione del laico cristiano, che è contenuta nel magistero del Concilio Vaticano II, là dove si parla di santità comune del popolo di Dio che, per la straordinaria esperienza della sua vita e per la dedizione caritatevole agli uomini e alle loro condizioni e situazioni di vita, la Chiesa riconosce oggi come singolarmente straordinaria in Carlo d’Asburgo. In lui, le generazioni dei laici cristiani che stanno vivendo l’inizio del terzo millennio, chiamate ad una drammatica ed esaltante opera di nuova evangelizzazione, troveranno un punto di riferimento sicuro e confortante».

IL TIMONE –  Aprile 2014 (pag. 42-43) 

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