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13.12.2024

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Una rivolta non fa primavera
31 Gennaio 2014

Una rivolta non fa primavera

 

 


La “mistica della piazza” di cui siamo succubi in Europa ha portato a clamorosi errori nel giudicare le tensioni e le ribellioni nei Paesi arabi. Che stanno favorendo la formazione di regimi fondamentalisti ai nostri confini

È ormai passato quasi un anno e mezzo da quel 18 dicembre 2010 quando il gesto estremo di un tunisino, Mohamed Bouazizi, che si è dato fuoco in piazza per protesta ha dato – almeno idealmente – il via a una serie di rivolte in Nord Africa e Medio Oriente, impropriamente definite “Primavera araba”. Da allora, tre capi di Stato sono caduti – Ben Alì in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto, Muammar Gheddafi in Libia –, qualcun altro ha i giorni contati (Assad in Siria), e diversi altri Paesi vivono situazioni tese e incerte.
Si può quindi cominciare, se non proprio a fare un bilancio, almeno a fare il punto della situazione. Intanto per capire se le speranze e le promesse iniziali sono state rispettate e a quali condizioni. E qui dobbiamo riconoscere che in Occidente, soprattutto in Europa, siamo stati vittime di un abbaglio colossale, succubi come siamo della “mistica della piazza”. Vale a dire che le manifestazioni in Tunisia prima e la lunga occupazione di piazza Tahrir al Cairo dopo hanno fatto subito gridare alla “primavera”, intendendo con ciò un inarrestabile movimento popolare verso la libertà e la democrazia dopo decenni di autoritarismo corrotto. Sicuramente dietro la rivolta c’è stato anche un genuino movimento che, pur in modo spontaneistico, esprimeva un desiderio di libertà e di giustizia. E sicuramente si è registrato – soprattutto in Egitto – un fermento intellettuale che ha aperto un dibattito su islam e democrazia dando voce a istanze riformatrici. Ma l’esito di quelle rivolte, come possiamo vedere dai risultati elettorali in Tunisia ed Egitto, è ben lontano dalle aspettative.
Intanto perché la piazza, per affollata che sia, non necessariamente rispecchia il sentimento dell’intera popolazione. E infatti, quando si è andati alle urne il movimento “democratico” ha raccolto le briciole: la popolazione ha votato in massa per i Fratelli Musulmani e per i gruppi salafiti, ovvero per i partiti che rappresentano il fondamentalismo islamico. Ed è ciò che, a maggior ragione, accadrebbe in tutti gli altri Paesi coinvolti.
Ma i governi occidentali, Stati Uniti di Obama in testa, alle prime dimostrazioni sono subito scesi in campo entusiasticamente per far saltare i vecchi dittatori, forse anche per far dimenticare in fretta che per decenni sono stati i più fidi alleati delle potenze occidentali. Subito si è parlato di “primavera” e i confronti con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 si sono sprecati. Che per dimensione e importanza ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo nei Paesi arabi sia paragonabile al crollo della Germania Est può essere vero, ma non per quel che riguarda gli esiti politici né per i sentimenti della popolazione. Forse un paragone più calzante potrebbe essere fatto con la caduta dell’Impero Ottomano, ovvero con un grande evento politico-militare che ha portato alla creazione di nuovi Stati e nuovi equilibri in quell’ampia regione che fino all’inizio del XX secolo era sotto influenza turca.
In effetti, dietro alle rivolte arabe – a cui si è aggiunta l’assurda guerra scatenata in Libia da Francia, Regno Unito e Stati Uniti – si stanno giocando i futuri equilibri regionali e mondiali, legati anche a una importante partita interna al mondo islamico, tra sunniti e sciiti.
Ne è un caso esemplare quanto avviene in Siria. Per quanto la nostra stampa europea si ostini a descrivere il dramma di quel Paese come uno scontro tra un movimento democratico e un regime repressivo – secondo il solito cliché della “primavera araba” – la realtà è molto più complessa.
Il problema con il regime “laico” di Bashar Assad, infatti, non sta tanto nella sua durezza e violenza – che pure è innegabile – ma con il fatto che è guidato da una minoranza alauita (di derivazione sciita) in un Paese a stragrande maggioranza sunnita. Nella composita opposizione ad Assad, infatti, un ruolo sempre più importante ce l’hanno le milizie islamiste, sostenute da Qatar, Turchia e sunniti libanesi, gli stessi attori che avevano sostenuto i ribelli libici. Mentre a fianco di Assad si è schierato il regime sciita iraniano, che pure sta giocando la sua partita (vedi la corsa al nucleare) per diventare la massima potenza regionale. Proprio la preoccupazione per gli sviluppi in Iran spiega, almeno in parte, l’acritico sostegno dell’amministrazione Obama ai rivoltosi. Mentre dall’altra parte Russia e Cina bloccano ogni tentativo di intervento o condanna esplicita del regime siriano, non tanto per sostenere Assad quanto per la preoccupazione che anche a Damasco si instauri un regime fondamentalista capace di contagiare le repubbliche islamiche dell’Asia centrale, che già sono una spina nel fianco delle due potenze.
Inoltre, la Russia teme i disegni egemonici – per nullanascosti – dellaTurchia sui Paesiche erano parte dell’Impero ottomano. Si può facilmentecomprendere come in questa situazione anche le rivolte spontanee, anche le genuine spinte per la libertà e la democrazia siano facilmente usate e strumentalizzate per la realizzazione di disegni politici che nulla hanno a che fare con libertà e democrazia. A questo si deve aggiungere che in tutti questi Paesi non c’è una tradizione democratica, quindi non ci sono nelle società arabe partiti o formazioni democratiche con radici consolidate; mentre, dall’altra parte, c’è una tradizionale presenza capillare di formazioni come i Fratelli Musulmani che quindi – in caso di elezioni – sono destinati a raccogliere il massimo dei consensi.
Di fronte a questa complessità, i cui esiti già sono evidenti, risulta davvero incomprensibile l’ingenuità e la faciloneria con cui in Occidente – e soprattutto in Europa – si continua a guardare a quella che continua a essere erroneamente definita la “primavera araba”. E il problema riguarda sia il modo in cui i media raccontano questi eventi sia come i governi li stanno affrontando. La verità è che abbiamo favorito e stiamo favorendo il formarsi di una cintura fondamentalista nel Nord Africa e nel Medio Oriente proprio ai confini meridionali dell’Europa, con conseguenze che ben presto si faranno evidenti.
E dopo il tragico errore in Libia, che abbiamo ormai trasformato in una nuova Somalia ai nostri confini, siamo pronti a ripeterlo anche in Siria. E senza che ci sia alcun segnale se non di ravvedimento almeno di riflessione.

 

 

IL TIMONE n. 112 – Anno XIV – Aprile 2012 – pag. 14 – 15
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