Mille anni dal battesimo
Nella Lettera diffusa dalla Conferenza Episcopale Ungherese il 1° gennaio 2000, in occasione del Grande Giubileo e del Millennio di santo Stefano Re d’Ungheria, viene affidato ai fedeli magiari, quale consegna giubilare, il motto “Il passato è la nostra speranza. Cristo è il nostro futuro. “
Quest’anno, infatti, l’Ungheria celebra due felici ricorrenze. La prima, il Grande Giubileo, insieme a tutta la Cristianità; la seconda, l’incoronazione di santo Stefano avvenuta nel Natale dell’anno 1000 con la Sacra Corona inviata da Papa Silvestro II in accordo con l’imperatore Ottone III.
Questo avvenimento suggellò la trasformazione di un’orda barbarica, che aveva terrorizzato i popoli cristiani, in un Regno della Respublica Christianorum, il quale sarà un “baluardo a difesa della cristianità contro l’invasione dei tartari e dei turchi” (Messaggio di Giovanni Paolo II al popolo magiaro, 20 agosto 2000, n. 1). Il Parlamento ungherese ha decretato che la Sacra Corona e le insegne regali del fondatore della nazione ungherese fossero solennemente trasferite dal Museo Nazionale nella sala a cupola del Parlamento con gli onori militari riservati al capo dello stato.
Un gesto altamente simbolico che ha dato sanzione civile alle affermazioni contenute nella citata Lettera dell’Episcopato nella quale tra l’altro si legge: “la fede cristiana si è integrata talmente nella cultura, nelle tradizioni, nella moralità della nostra nazione, che è diventata chiave di interpretazione per la storia di mille anni. Le generazioni precedenti sono state sempre consapevoli che l’attaccamento alla fede e la devozione alla patria vanno insieme. La devozione alla patria è anche per noi un analogo obbligo che deriva dalla fede”. Durante il secolo appena trascorso la storia millenaria della nazione magiara ha conosciuto una aggressione senza precedenti. Il regime comunista ha tentato di estirparne la radice cristiana e con essa, quindi, il fondamento della sua vocazione, il senso stesso della sua esistenza storica. Come altre nazioni d’Europa, l’Ungheria è oggi di fronte alla scelta tra la vita e la morte. Oggi ha di nuovo la possibilità di scegliere liberamente se riconfermare la propria vocazione cristiana, e mediante una nuova evangelizzazione partecipare alla costruzione di una nuova Cristianità, o disperdere l’eredità del suo passato nel magma indistinto della globalizzazione trionfante.
Le nazioni, infatti, non sono eterne. Come ricordano i Vescovi ungheresi: “Le nazioni possono scomparire e – come dice il profeta Isaia – davanti a Dio esse sono come una goccia in un secchio”.
In questo senso va meditato il motto giubilare. La speranza come nazione, ossia la possibilità di continuare ad esistere storicamente, è nel ritorno alle radici che dettero origine alla nazione magiara. Il futuro in quanto singoli invece è certo ed è Cristo. La vita storica delle nazioni è segnata nel bene e nel male dalle azioni dei suoi figli. In momenti particolari della storia alcuni talvolta riescono con i loro gesti e la loro vita a segnare in modo talmente forte il loro passaggio da diventare per i contemporanei e per i posteri quasi l’incarnazione dei drammi e delle scelte di un particolare popolo.
Per l’Ungheria del secolo XX una figura emerge grandiosa. Il cardinale József Mindszenty (1892-1975). La guerra scatenata dal comunismo contro le radici cristiane dell’Ungheria trovò in lui l’avversario, umanamente inerme, forte della Fede e della coscienza altissima del suo compito di Primate, per tradizione custode della Sacra Corona e quindi difensore anche dell’identità storica del suo gregge.
Alla fine della seconda Guerra Mondiale, l’Ungheria viene occupata dall’esercito sovietico. Con l’appoggio delle truppe di occupazione nel governo provvisorio prende il sopravvento il Partito Comunista, il cui segretario Màtyàs Ràkosi rientra in Ungheria il 30 gennaio 1945.
Il vescovo József Mindszenty, già incarcerato il 27 novembre 1944, il 16 settembre 1945 viene nominato da Pio XII Primate di Ungheria. Intanto prosegue implacabile la sovietizzazione del paese: espropri, statalizzazione dell’insegnamento, scioglimento dei partiti anticomunisti, eliminazione di ogni libertà politica. Per la Chiesa i tempi si fanno sempre più difficili. Dopo una lunga campagna diffamatoria, il 26 dicembre 1948 il Cardinale Primate viene arrestato e accusato di alto tradimento.
Il processo ha un’eco enorme in tutto il mondo. Le fotografie del Cardinale sofferente sul banco degli imputati commuovono l’opinione pubblica. Il pro cesso si conclude l’otto febbraio 1949 con la condanna all’ergastolo.
La morte di Stalin (3 marzo 1953) e le convulsioni interne al regime sovietico che ne derivano, provocano agitazioni in molti paesi (Berlino 1953, Polonia estate 1956); anche l’Ungheria risente del clima di speranza che si è determinato. Il 23 ottobre 1956 Budapest insorge. Viene nominato un governo di emergenza, in parte formato da comunisti dissidenti con a capo Imre Nagy, che finirà impiccato dai sovietici nel 1958. Il 30 ottobre viene liberato il cardinale Mindszenty, che diventa il punto di riferimento morale per i combattenti per la libertà.
La mattina del 4 novembre l’esercito sovietico, forte di duecentomila uomini, attacca approfittando della crisi in corso nel mondo occidentale a causa della guerra di Suez, che vede gli Stati Uniti in contrasto con Francia e Inghilterra.
Così nell’impotenza dei governi occidentali si compie la tragedia .
La repressione sovietica è durissima. I membri del governo Nagy vengono deportati in Romania, duecentomila profughi lasciano l’Ungheria. Il cardinale primate si rifugia nell’ambasciata statunitense portando con se la corona di santo Stefano.
Nell’ambasciata rimarrà praticamente prigioniero, non può avere infatti corrispondenza né incontri con il mondo esterno, fino al 28 settembre 1971 quando accetta di lasciare l’Ungheria ponendo delle condizioni che le autorità ecclesiastiche non rispetteranno.
In questo ultimo periodo della sua vita il cardinale testimonia ancora una volta la sua fedeltà al mandato ricevuto, anche opponendosi agli ambienti della segreteria di Stato che in nome della cosiddetta “Ostpolitik”, nella convinzione che il comunismo è destinato alla vittoria e che quindi bisogna trovare con questo regime un modus vivendi, siglano accordi con i governi dell’est europeo a discapito della vita delle chiese locali. Anni dopo, in una intervista al Giornale pubblicata il 18 luglio 2000, il cardinale slovacco Jàn Korec dirà: “se il comunismo fosse durato cento anni, con quel metodo così inadeguato la Chiesa nel nostro paese sarebbe sparita, come un tempo sparì nell’Africa del Nord”.
Nel 1974 pubblica le sue memorie. Il volume sarà tradotto nelle principali lingue del mondo, svelando i retroscena della sua liberazione e narrando al mondo la sofferenza dei popoli sottomessi al giogo comunista. (József Mindszenty, Memorie, Rusconi, Milano 1975)
Ritornerà al Signore il 6 maggio 1975 sopportando con cristiana rassegnazione le umiliazioni e gli affronti dolorosi degli ambienti ecclesiali “progressisti” che lo considerano un ostacolo testardo al dialogo sempre più compromissorio con il mondo comunista.
Oggi il cardinale riposa nella sua cattedrale, in una Ungheria che in quest’anno giubilare lo ricorderà con un monumento quale difensore della fede e della libertà del suo popolo.
Dalla biografia di padre Werenfried van Straten riportiamo il racconto del suo primo incontro con il card. Mindszenty avvenuto il 30 ottobre 1956. Il legame particolare dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre con l’Ungheria è anche dimostrato dalla presenza tra i primi collaboratori di padre Werenfried di un padre premostratense ungherese, padre Hugo Marton che è stato il suo bracco destro in Italia per lunghi anni. Da quel 30 ottobre 1956 l’Opera fondata da Padre Lardo ha contribuito ad alleviare le sofferenze della Chiesa Ungherese ed oggi ne sostiene la ricostruzione. “Ero in abito bianco e avevo dimenticato il passaporto. Avevo soltanto il Rosario e lo recitai da Vienna a Budapest. Alla frontiera c’era un immenso disordine. Vedendomi vestito di bianco possono aver pensato che fossi il Papa! In ogni caso riuscimmo a oltrepassare la frontiera senza controlli. Si sparava ancora e più ci avvicinavamo a Budapest più vedevamo drappi neri alle finestre che avvertivano che vi si piangevano dei morti. Le ultime truppe sovietiche si ritiravano da Budapest nel momento in cui entravamo noi. Cercammo subito la casa del cardinale. Lo incontrammo un’ora dopo la sua liberazione.
Attorno a noi era tutto mezzo distrutto. Trovavamo vetture di tram abbandonate di traverso nelle strade, carri armati e blindati russi incendiati, coperti di giovani e anche di bambini che agitavano bandiere ungheresi. Parlammo per un’ora con il cardinale. Aveva una veste lisa e sporca. Non era rasato. Alla nostra presenza designò un vescovo ausiliare responsabile della distribuzione degli aiuti e incaricato dei contatti con la nostra Opera. In seguito ci elencò le sue priorità. Mi affidò una lettera indirizzata a tutti i vescovi occidentali che aveva fatto dattilo-scrivere mentre noi eravamo là, lettera alla quale aggiunse alcune righe di suo pugno. Dopo questo tornammo il più presto possibile in Austria. Rientrato a Vienna, tradussi e pubblicai immediatamente la lettera, poi mi recai a Bruxelles. La radio belga era già sul posto ad accogliermi ed ebbi immediatamente accesso al microfono. Allora lanciammo la più grande campagna della storia della nostra Opera con azioni di preghiera in tutte le città e in tutti i villaggi fiamminghi. Organizzammo una processione con l’amministrazione comunale alla testa, con un sermone preparato dai predicatori. Io stesso predicai, in diversi Paesi, in trenta cattedrali. Evidentemente, alcuni giorni più tardi, i Russi erano ritornati a Budapest e il cardinale aveva dovuto rifugiarsi nell’ambasciata americana, ma noi sapevamo cosa si doveva fare. Le frontiere non erano ancora chiuse. Ritornato a Vienna, dissi subito: ‘Trasportate in Ungheria tutto quello che c’è nei nostri magazzini’. Partirono dei camion dalla Svizzera, dall’Austria, dal Belgio e il nostro grande camion a rimorchio potè arrivare a Budapest e poi a Gyór appena in tempo. Fu l’ultimo automezzo a poter lasciare l’Ungheria. Avevamo fotografato anche un libro di preghiere ungherese, lo stampammo in 100.000 copie e immediatamente lo introducemmo in Ungheria. Era una vecchia opera un po’ fuori moda, ma almeno era un libro di preghiere. Facemmo passare anche delle Bibbie e dei catechismi. “
IL TIMONE – N. 10 – ANNO II – Novembre/Dicembre 2000 – pag. 24-25