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12.12.2024

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«Un’opera cattolica»
31 Gennaio 2014

«Un’opera cattolica»

 

 

Molti dei personaggi che troviamo ne Il Signore degli Anelli rimandano a figure e verità religiose. E cattoliche. Come la Vergine Maria, l’Eucaristia, gli angeli e i demoni
 

 

«Io sono cristiano, e cattolico romano », scriveva John Ronald Reuel Tolkien in una lettera del 1956. E questo suo cattolicesimo profondo, cristallino, vissuto riverbera nettamente nella sua grande opera letteraria: il legendarium, come lui amava definirlo, pensato e scritto originariamente per dare una mitologia alla sua patria, l’Inghilterra, ovvero una mitologia che fosse principio e fondamento di una intera visione del mondo, quasi volendo – in anticipo – dare carne e sangue alle parole con cui Papa Benedetto XVI ha commento il proprio viaggio in Albione nell’Udienza Generale in Piazza San Pietro del 22 settembre 2010: «Questo viaggio apostolico ha confermato in me una profonda convinzione: le antiche nazioni dell’Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce un tutt’uno col “genio” e la storia dei rispettivi popoli, e la Chiesa non cessa di lavorare per mantenere continuamente desta questa tradizione spirituale e culturale».

Opera naturaliter cristiana
Elaborato sui modelli e sulle testimonianze della “letteratura dell’avvento” precristiana, che negli antichi popoli d’Europa inconsapevolmente preparava a Cristo, quindi anche sulla “letteratura della conversione” anzitutto del suo popolo, il legendarium di Tolkien è un’opera naturaliter christiana. In essa, una galleria di personaggi, costruita secondo le stesse logica e grazia con cui gli autori della classicità hanno concepito le “vite parallele” e gli exempla dei grandi, si confronta con le domande essenziali dell’esistenza, dai prambula fidei ai novissimi, facendo dialogare le virtù naturali con quelle teologali. Misericordia e speranza sono i leit-motiv che attraversano il testo narrativo principale di Tolkien – l’unico davvero portato a conclusione, anche se mai pubblicato nella forma finale che l’autore sognava –, ovvero Il Signore degli Anelli (composto lungo decenni e pubblicato originariamente fra 1954 e 1955), un’opera che riesce nella difficilissima impresa di armonizzare l’ethos dell’epica classica con le caratteristiche del romanzo moderno. Senza mai essere solamente l’una cosa o l’altra, e quindi risultando in un genere letterario unico di cui costituisce la sola fattispecie narrativa, Il Signore degli Anelli narra gli eventi dei “tempi ultimi” della costruzione mitologica tolkieniana, in cui – il lettore se ne rende conto solo a posteriori – gli eventi sembrano subire un’accelerazione improvvisa rispetto al lento scorrere delle ere precedenti man mano che si avvicinano al clou narrativo che coincide con “il sugo di tutta la storia”.
Il Signore degli Anelli, infatti, si regge e si staglia – e ancora più si gusta, non meglio si comprende – sull’“antico testamento” di quell’enorme complesso di saghe e di racconti – e di genealogie, calendari, etimologie, grammatiche, mappe geografiche – solo parzialmente pubblicato, a cura del figlio Christopher, come Il Silmarillion. Quello che Tolkien elaborò (senza mai concluderlo veramente) come un colossale “libro dei racconti perduti” in svariati tomi – di cui Il Silmarillion è un estratto “fotografico” di una certa fase del suo intero sviluppo – è infatti il racconto per immagini e simboli della realtà stessa, dell’intero esistente.

In principio il «Padre di tutto»
Il legendarium tolkieniano prende le mosse dal principio primo di tutte le cose, dal “momento” oltre il quale non si può risalire: non perché dietro vi sia nulla, ma perché vi è tutto, cioè l’Essere pieno che hai in sé la ragione del proprio esistere e che da sé sussiste. Comincia Tolkien a narrare da quella libera scelta di amore con cui Eru, l’Unico, detto anche Ilùvatar, il «Padre di tutto» – come l’Alfodr (Allfather) degli antichi norreni – generò dal proprio progetto gli Ainur, «Coloro che sono santi», ovvero le gerarchie angeliche le quali – nota Tolkien – nel corso dei secoli furono erroneamente scambiate dagli uomini e dai popolo per divinità. A loro Ilùvatar affidò lo sviluppo della propria visione per temi musicali, e subito insorse il disordine malizioso dell’Ainu ribelle, Melkor, poi noto come Morgoth. Ilùvatar diede allora realtà all’armonia degli Ainur e in essa trovò posto anche la distonia di Morgoth. La chiamò Eä, cioè «Sia!».

L’“angelo” sconfitto
Morgoth fu però sconfitto sin dal principio. Precipitato dal cielo nella fossa infernale di Udûn, che divenne la sua fortezza dove arde un fuoco blasfemo, gli fu concesso un tempo, dopo il quale, perduto lo scontro con i Valar (l’ordine supremo degli Ainur), egli venne scagliato nel Vuoto, incatenato fuori dal tempo e dallo spazio. Non può fare ritorno, anche se può traviare le anime. Morgoth digrigna i denti al sorgere delle sette stelle che compongono la costellazione Valacirca, “La Falce dei Valar” (l’Orsa Maggiore), posta nel cielo, a perenne monito di Morgoth e dei suoi servi, da Varda, una delle Valier (i Valar femminili), nota anche come Elbereth, la prima a intuire la natura malvagia di Morgoth, il quale la odiava e temeva più di tutti.
Su questo magnifico scenario cresce Il Signore degli Anelli.

Gandalf
Fra i personaggi principali dei suoi “tempi ultimi” vi è Gandalf, che in uno scritto poco noto Tolkien descrive come uno dei Maiar (sottoposti ai Valar) ovvero un “messaggero” cioè un “angelo”. Ha un compito celeste da svolgere nella Terra di Mezzo tolkieniana. Per questo assume sembianze umane – non s’incarna, precisa bene Tolkien, cosa che fa solo Gesù – e va pellegrino nel mondo. Non deve forzare la storia né interferire, ma sorreggere, consigliare, guidare e confortare. Gandalf è strumento che manifesta la Provvidenza d’Ilùvatar. È membro dell’Ordine degl’Istari, la sede del potere spirituale nella Terra di Mezzo, gerarchica e dottrinale, che non può avere vacanza al suo vertice. Gandalf ne diviene il capo supremo quando tutti gli altri Istari perdono la fede, come Sauron, o si smarriscono. Allora, solo allora Gandalf “rinascerà” di bianco vestito. Tolkien era un filologo di eccelsa qualità, e molto di quanto comunica al lettore passa per l’accurato uso dei vocaboli. Gl’Istari, per esempio, malamente tradotti con “stregoni”, sono invece (in inglese) dei wizard, parola che convoglia assieme l’idea di meraviglia e di saggezza: ben diverso da witch, questo sì “stregone”, mai adoperato però da Tolkien per indicare Gandalf e sempre per i nove re degli uomini che scelsero il Maia (angelo) traditore Sauron, servo di Morgoth, trasformandosi negli Spettri dell’Anello. E witch suona pure corruzione linguistica di wizard. E che dire degli “orchi” di Sauron e di Saruman, creati manipolando geneticamente elfi luminosi fatti prigionieri. In italiano il temine “orco” inganna: nell’originale inglese, Tolkien non sceglie ogre (l’ispanismo con cui nella sua lingua si dice “orco”), ma orc, termine elfico nella sua creazione e nella realtà della linguistica storica antichissimo epiteto per demone.

Dama Galadriel
Costante, ne Il Singore degli Anelli, è la forza benefica e discreta di dama Galadriel, la signora bianca degli elfi, che, vinta la prova della tentazione, pronuncia il suo “sì” affinché i popoli liberi della Terra di Mezzo possano continuare la propria missione. Galadriel è meravigliosa, sublime, materna. Tolkien disse espressamente che per disegnare il suo personaggio s’ispirò alla Vergine Maria, modello di ogni sua idea estetico-teologica.

Aragorn
Uno dei compiti di Gandalf è quello di stare al fianco di Aragorn, l’ultimo della stirpe regnante ma spodestata (a causa di un peccato di orgoglio degli avi) di Gondor. Il destino di Aragorn è quello di restaurare il regno perduto (che si chiamerà Regno Riunito, con il reame di Gondor che, scrive Tolkien, sovrapposto a una cartina dell’Europa occuperebbe più o meno il territorio del Sacro Romano Impero), portando la pace tra i popoli liberati dal dominio totalitario di Sauron. Aragorn sceglie di volere il proprio destino e per tutto il romanzo è il segno visibile della speranza che non muore anche nelle asperità più dure. Di fronte alla sua spada regale si piegano le ginocchia anche degl’inquieti trapassati del regno dei morti a cui egli ridà senso e speranza quando come Ulisse e come Enea scende agli inferi uscendo però vivo dall’altra parte come solo Cristo.

Frodo e il lembas
E come scordare il piccolo hobbit Frodo Baggins, che prese su di sé un fardello pesantissimo confortato nella buona e nella cattiva sorte da quel piccolo Cireneo che fu Mastro Samwise. Venne il giorno in cui Frodo fu preso prigioniero dagli “orchi”, picchiato, denudato, le sue vesti spartite fra i malvagi, praticamente ucciso e imbozzolato come in un sudario. Solo la pietà senza mai fine di Samwise lo riportò in vita. Allo stremo delle forze, Sam e Frodo si ressero solo grazie al “pan di via”, il lembas, cioè il viatico confezionato da mano elfica nella terra di dama Galadriel. Non si vive di solo pane, ma Sam e Frodo sopravvivono di solo lembas.
Alla fine della storia sarà la pietà apparentemente casuale ma sempre costante di Frodo a propiziare quel disegno incomprensibile alle menti umane che porterà la più improbabile e infingarda delle creature, il meschino Gollum, a farsi strumento di buon esito. Così si conclude la Terza Era del legendarium, scrive Tolkien, quella delle leggende e dei miti, aprendo la Quarta proprio il 25 marzo dell’Incarnazione cristiana. Per questo Gandalf, Aragon, Galadriel, Frodo, Sam e i loro compagni si sono battuti. Quello è il tempo degli uomini, da cui viene la salvezza. «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica», scriveva Tolkien al padre gesuita Robert Murray il 4 novembre 1954.

 

 

 

 

 

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IL TIMONE  N. 102 – ANNO XIII – Aprile 2011 – pag. 39 – 41

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