La Regola di Benedetto da Norcia e la comunità monastica all’alba del Medioevo.
La porta del monastero di Montecassino si era aperta ad accogliere uomini di ogni specie, da quando Benedetto da Norcia ne aveva iniziato la costruzione con un gruppo di compagni. Erano gli anni difficili intorno al 529: infuriava la guerra, eserciti goti e bizantini si fronteggiavano tra Lazio e Campania; dovunque miseria, carestie ricorrenti ed epidemie.
A Montecassino giungevano uomini mossi da prospettive di vita e intenti disparati, segnati da urgenze e domande diverse, come diversa era l’attesa che muoveva ciascuno. Uguale era solo il gesto con cui Benedetto e i suoi monaci aprivano le porte del monastero: al goto Zalla, “ariano arrabbiato contro tutti i servi di Dio”; al suddiacono Agapito, in cerca di un po’ d’olio, introvabile a causa della carestia; al contadino che recava sulle braccia il figlio morto chiedendo di risuscitarlo, così come all’abate Servando in pellegrinaggio di devozione; al re goto Totila, che travestendosi tentava l’inganno e, smascherato, veniva accolto e invitato a ravvedersi. A nessuno si rifiutava l’accoglienza dovuta ai fratelli, come l’abate Benedetto aveva scritto a chiare lettere: “Tutti gli ospiti siano accolti al loro arrivo come fossero Cristo” (Regula Benedicti 53,1).
Nel silenzio del monte che domina l’abitato di Cassino, egli aveva speso gli ultimi anni della vita a comporre la Regola, lo strumento normativo che avrebbe assicurato continuità alla sua esperienza monastica.
La Regola è il frutto dello studio approfondito dei testi normativi che sin dall’antichità avevano disciplinato il mondo monastico; proprio con quegli scritti e con molti testi di spiritualità essa rivela un legame assai stretto: ad Agostino, a Giovanni Cassiano, a Basilio (che viene esplicitamente citato) il testo composto da Benedetto è fortemente debitore.
Forse in misura ancora maggiore la Regola è l’esito dell’esperienza di vita e della conoscenza degli uomini che egli aveva maturato negli anni precedenti. Aveva sperimentato la perfidia di meschini confratelli, quando nei pressi di Subiaco si era cercato di eliminarlo con il veleno; aveva sofferto per l’insidia che un prete geloso del suo prestigio aveva ordito inviandogli fanciulle dai disinvolti costumi. Ma certo doveva anche ricordare le premure del sacerdote che per ispirazione divina l’aveva soccorso in un lontano giorno di Pasqua e che insieme a lui, quasi inselvatichito dalla solitudine, aveva celebrato l’Eucarestia. Amarezza e gioia, appassionato desiderio di Dio, riflessione attenta lo avevano condotto lungo la valle del Sacco, oltre Veroli e Frosinone, alla ricerca di un luogo appartato, che fu poi Montecassino, coperto di selve, alto sul piano. Difficile credere che il lungo e tormentato percorso individuale di santità di Benedetto non sia confluito nella Regola.
Essa, come anticipa il Prologo, è lo strumento per “far ritorno a Colui dal quale ti eri allontanato per la pigrizia della disobbedienza (…), per militare sotto il vero re, Cristo Signore”. Lo scopo dell’avventura benedettina è dunque quello di sempre, ripreso dall’antico monachesimo e nuovamente proposto: il ritorno al Signore nel cammino tormentato dell’esistenza.
L’ideale di Benedetto è lontano da esasperate ricerche di perfezione, da quegli eroismi che possono rendere unica ma irraggiungibile un’esperienza religiosa. Il suo è un tono medio: la proposta di vita deve essere sostenibile da chiunque, pur nella prospettiva di una scelta rigorosa. La comunità è il luogo in cui giorno dopo giorno, nonostante e, insieme, attraverso se stessi, in forza dell’amore di Dio si costruisce un anticipo del Paradiso.
Benedetto intende offrire uno strumento che consenta a ogni monaco di camminare nella via della santificazione. Dodici i gradini che conducono dal timor di Dio all’amore di Dio, “che è perfetto e che scaccia il timore” (RB 7, 67), in un percorso che valorizza il silenzio, o meglio la taciturnità, come misura del parlare “pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, dicendo poche parole e meditate, senza mai alzare la voce” (RB 7, 60). Fondamentale è pure la coscienza che “il primo gradino dell’umiltà è l’obbedienza pronta”, perché “è propria di coloro che nulla ritengono di avere più prezioso di Cristo” (RB 5, 1-2).
Nella stessa direzione puntano la scelta della castità e dell’assoluta povertà individuale, così che nella comunità monastica “nessuno osi dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell’abate, né possedere alcunché di proprio: nulla nel modo più assoluto, né libro, né tavolette per scrivere, né stilo, poiché non è più lecito disporre del proprio corpo e della propria volontà” (RB 33, 2-4).
Si ritrova qui uno dei passaggi obbligati della vita monastica: la comunità cenobitica è propriamente una “scuola”, di cui l’abate è padre e maestro. Al monaco è chiesta totale dipendenza, all’abate autorevolezza di padre e saggio discernimento, in modo che le esigenze della Regola si temperino a misura dei più giovani e dei più deboli (degli anziani in particolare), perché a nessuno sia assegnato un giogo più pesante di quello che può portare.
Vertice della vita monastica è la preghiera, l’opus Dei, che nei testi del monachesimo antico caratterizzava l’intera giornata del monaco.
Ai tempi di Benedetto l’organizzazione del monastero favoriva lo svolgimento della lectio divina e del lavoro in tempi distinti.
Ma se è vero, come egli rileva, che “proprio allora sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani, come fecero i nostri padri e gli apostoli” (RB 48, 8), il tempo dedicato all’ufficio divino resta comunque intatto e preponderante. Non si tratta solo della proclamazione dei testi sacri, dell’accurato salmodiare corale, ma piuttosto di un’orazione silenziosa che, in linea con le esperienze del monachesimo più antico, è innanzitutto ascolto della Parola di Dio. Nella preghiera il dialogo drammatico tra Dio e l’uomo trova la sua più alta collocazione e insegna al monaco a non disperare mai della misericordia del Padre.
Alla giornata del monaco, scandita dal ritmo della preghiera, appartengono anche il tempo del lavoro, della refezione e del sonno; il monastero è quindi occasione di un personale itinerario spirituale, “scuola e servizio divino”, luogo di studio e di orazione.
A questi si aggiungono l’attività degli scriptoria per la riproduzione degli antichi codici e l’elaborazione di nuovi testi, così come l’ordinata gestione del patrimonio agricolo, che nel tempo favorisce il sorgere di nuovi insediamenti attorno ai cenobi, segno di un positivo impatto sociale.
Benedetto aveva cercato di insegnare l’amore a Dio e quello agli uomini, era fuggito da un tempo violento e crudele, aveva pregato e agito per il sorgere di un mondo nuovo. Con la Regola il seme era stato gettato: i secoli successivi ne avrebbero testimoniato la fecondità.
Bibliografia
Edizioni della Regola:
San Benedetto, La Regola, a cura di Giorgio Picasso, Edizioni San Paolo, 1996 (testo latino a fronte).
La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 1995 (testo latino a fronte).
Un profilo biografico:
Anselmo Lentini, Benedetto di Norcia, santo, in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, coll. 1104-1172.
Ludmila Grygiel, San Benedetto, il primo Europeo, Cantagalli, 2004.
TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 28-29